Il sentiero è stretto ma tenere insieme lavoro e salute, acciaio e ambiente, salvare insomma lo stabilimento siderurgico di Taranto con i suoi ventimila dipendenti diretti e indiretti senza per questo condannare Taranto e i tarantini a un futuro fatto di monocolture economiche e malattie rappresenta ormai un passaggio obbligato per il premier Conte e il suo esecutivo.
Proprio sull'Ilva, la maggioranza composta da Pd e Movimento 5 Stelle ha litigato in lungo e largo per anni, apparecchiando visioni diverse.
Visioni quasi sempre contrapposte e spesso poggiate sugli slogan dell'acciaio tarantino indispensabile per la manifattura italiana (quest'anno i coils made in Taranto non arriveranno nemmeno al 20 per cento della produzione tricolore) e della chiusura delle fonti inquinanti (non c'è industria, come automobile o perfino scooter che non inquini: bisogna vedere dove lo fa e quanto lo fa).
Per tenere tutto assieme, ormai è convinzione diffusa nella maggioranza che sostiene Conte, a parte eccezioni fondate più su digiuni di potere che altro, occorre cambiare il modo di fare acciaio a Taranto, puntando sul progressivo addio al carbone proposto due anni fa dalla cordata AcciaItalia (con dentro gli indiani di Jindal, gli italiani Arvedi e Del Vecchio e lo Stato tramite Cassa depositi e prestiti) e quasi sdegnosamente snobbata dai Calenda boys che invece scommisero su ArcelorMittal, il numero uno al mondo nella produzione dell'acciaio, strenuamente legata al ciclo integrale.
Ma cambiare modo non è semplice. Occorre una precondizione (assicurarsi tariffe energetiche competitive, quelle finora sempre promesse e sistematicamente negate a Jindal che infatti frena su Piombino), servono capitali freschi per rifare i vecchi impianti e costruire i nuovi, bisogna convincere la famiglia Mittal a restare in Italia oppure formare una nuova società che metta assieme le competenze maturate nell'amministrazione straordinaria, qualche signore dell'acciaio italiano (Arvedi?) e le società partecipate pubbliche in grado di garantire da un lato le tecnologie necessarie per cambiare verso all'acciaieria di Taranto e dall'altro ordini consistenti utili per assicurarsi un futuro senza grossi affanni di mercato.
Il tempo è tiranno. All'udienza del 20 dicembre prossimo dinanzi al tribunale civile di Milano bisognerà arrivare con un accordo o quantomeno una pre-intesa. Ma già domani ai sindacati, capaci ieri di mobilitare migliaia di operai a Roma, organizzando uno degli scioperi più riusciti degli ultimi tempi in termini di adesioni in fabbrica, bisognerà fornire una prospettiva, spiegare se davvero l'annuncio di ArcelorMittal di dover mandare a casa 4.700 operai tra il 2020 e il 2023 sia stata l'ennesima minaccia calata sul tavolo delle trattative da Lucia Morselli per spuntare migliori condizioni o se invece il piano del Governo, anticipato ieri dalla Gazzetta, sarà in grado di riassorbire tutta la forza lavoro.
Una comunità fortemente provata come quella tarantina non può accettare ulteriori giri di valzer, sopportare a lungo folate di incertezza, resistere ad altre campagne elettorali basate sui suoi posti di lavoro e sulle sue condizioni di salute. Sia benedetto il «Cantiere Taranto» in corso di varo dal premier Conte ma i cantieri belli sono quelli che si aprono e soprattutto si chiudono nei tempi e nei risultati promessi e qui, in riva allo Jonio, c'è disperato bisogno di fatti, avendo esaurito gli spazi ove contenere le parole.