L’evasione fiscale è eticamente riprovevole perché dimostra l’indifferenza nei confronti degli altri, dello Stato-comunità, che è tale in quanto dispone di risorse in grado di coprire i costi dei servizi offerti ai consociati. Una forma di egoismo ma anche una manifestazione poco edificante di parassitismo: vivere nella società, fruendo dei benefici e dei vantaggi che questa ci offre, alle spese dei contribuenti. Prima ancora che contrario alla legge, è moralmente disdicevole.
Da qui occorre partire per analizzare la legislazione in materia fiscale, una delle più mutevoli tra quelle del Paese, e in particolare l’ultima delle proposte in materia formulata dal governo giallorosso, vicina a tagliare il traguardo, mediaticamente incentrata sulle c.d. “manette agli evasori”.
Slogan dal sicuro impatto massmediale e dagli innegabili ricavi propagandistici ma tutt’altro che convincente e dalla dubbia incisività rispetto ad un fenomeno assai complesso ed intricato. Inasprire le pene va bene, ma solo in un sistema giudiziario che riesca a giungere ad una sentenza definitiva in tempi ragionevoli (siamo in Italia, non in Danimarca o in Finlandia).
Abbassamento delle soglie di punibilità per determinati reati tributari (da €150.000 a € 100.000) e contestuale innalzamento delle pene edittali nei minimi e nei massimi. In più, estensione della confisca allargata dei beni – misura di prevenzione nata per contrastare i fenomeni mafiosi – per dichiarazioni dei redditi divergenti dal tenore di vita. Ancora una volta lo Stato denuncia la propria incapacità a svolgere processi penali in tempi rapidi, preferendo le più comode misure attutate prima e al di fuori del processo il cui tasso di garanzie è, com’è noto, di gran lunga inferiore. Questi (a quanto è dato sapere) i tratti distintivi della disciplina in fieri.
Non è affatto, lo diciamo subito, una svolta epocale, conseguenza di un afflato rivoluzionario.
Di “manette agli evasori” già si parlava nel secolo scorso (1982), ma gli effetti furono assai deludenti. Nell’ultimo trentennio il metodo è stato rispolverato, ma con risultati altrettanto insoddisfacenti. E i frutti che ha generato, evidentemente, fanno capire che il problema è altrove. Quanti sono attualmente gli evasori fiscali nelle patrie galere? Un numero irrisorio, 217 i condannati in via definitiva e 64 quelli in attesa di giudizio, a fronte di migliaia di indagini avviate. Le leggi ci sono, certo con trattamenti sanzionatori più morbidi, ma ci sono. La ragione? Ancora una volta l’incapacità del nostro sistema giustizia di celebrare i processi celermente.
E allora? Arriva proprio da chi non t’aspetti una brusca frenata sull’approccio meramente carcerario al tema. E un endorsement sulla sua inutilità. Antonio Di Pietro ha affermato che la sanzione penale va «benissimo, ma non in termini di quantità, bensì di certezza» e che va privilegiata la sanzione pecuniaria, in quanto consente allo Stato di recuperare le somme sottratte all’imposizione fiscale. La concretezza dell’uomo simbolo di Mani Pulite, del maestro concertatore di Tangentopoli – celebrato proprio in questi giorni dalla serie televisiva 1994 – lo porta a guardare oltre l’ostacolo, ad andar al di là della corteccia. A non rimanere abbagliato dallo spot governativo, peraltro mandato in onda più volte, che si regge sull’equazione “pene più severe = giustizia più efficiente”. Non è la gravità di una pena a renderla più efficace, ma la sua certezza, affermava nel 1764 Cesare Beccaria nel suo pamphlet Dei delitti e delle pene.
Negli Stati Uniti, più volte evocati a paradigma della lotta giudiziaria contro l’evasione fiscale, effettivamente i risultati sono assai più consistenti, anche se il sistema è multitasking, affiancando ai profili sanzionatori severi abbondanti strutture, uomini, e mezzi che fanno emergere il mondo sommerso dell’evasione fiscale. I processi penali, poi, hanno una durata per niente paragonabile ai nostri. E, soprattutto, la percezione sociale del fenomeno è assai diversa. I contribuenti infedeli, nel sentire comune, sono colpiti da uno stigma che gli equipara a un ladro o ad altri criminali comuni. Tradire lo Stato significa tradire loro stessi. È questa, probabilmente, la chiave di volta che codici e leggi non possono far germogliare.
Certo le tasse non si pagano a cuor leggero, persino Albert Einstein si interrogava sul punto affermando (non senza ironia) che «la cosa più difficile al mondo è capire la tassa sul reddito», eppure va fatto se si vuole un apparato statale che funzioni.
Una battaglia persa, quella contro l’evasione fiscale?
Secondo Benito Mussolini vi erano ben poche speranze di uscirne vittoriosi, in quanto «l’individuo, lasciato a sé stesso, a meno che sia un santo o un eroe, si rifiuta sempre di pagare le tasse». Non una grande considerazione della stirpe italica, quella del Duce. O forse una profonda conoscenza del suo popolo. Cinismo a parte, è indubbio che so tratti di un’impresa eccezionale. Ma non per questo una missione impossibile.
Occorre, però, essere consapevoli che a mutare deve essere l’atteggiamento di ciascuno, ad aumentare deve essere il senso dello Stato. Un’utopia? Forse. Un processo lungo? Certo. Ma sempre meglio di un inutile tintinnio destinato ineluttabilmente a evaporare nell’aria.