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L'effetto proporzionale ha scatenato l'ex premier

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Matteo Renzi

Matteo Renzi

Martedì 17 Settembre 2019, 16:46

C’era da aspettarselo. L’effetto frammentazione, dell’offerta politica, prodotta dal modello elettorale proporzionale, è così forte che già al solo discutere di una nuova riforma in tal senso si moltiplicano i conati di scissione nei partiti. Ora è il turno di Renzi. Ma in futuro anche altri «separati in casa» decideranno di fare domanda di divorzio. Tutto nasce dai sistemi elettorali: la legge proporzionale tende a sminuzzare il quadro politico, mentre il criterio maggioritario tende a semplificarlo. In verità questa rappresentazione, questa distinzione, non è automatica, anzi. Anche i sistemi maggioritari non sono al riparo da rotture e lacerazioni varie, specie quando i regolamenti parlamentari incentivano la formazione di nuovi gruppi.

Ma, tendenzialmente, diciamo, la proporzionale agevola lo spappolamento delle sigle politiche, soprattutto quando (sempre la proporzionale) non viene accompagnata da una cospicua soglia d’ingresso per la rappresentanza parlamentare.
Dunque. Nicola Zingaretti ha un solo modo per cercare di dissuadere Renzi dal proposito di uscire dal Pd e, di conseguenza, indebolire il governo e la maggioranza: escludere che l’intesa tra Pd e M5S possa sfociare nel ritorno della proporzionale pura. Non a caso Romano Prodi e Walter Veltroni si sono mossi sùbito a sostegno della causa maggioritarista: lo hanno fatto sia perché da sempre i due protagonisti della stagione dell’Ulivo sono favorevoli alle regole del gioco maggioritariste, sia perché entrambi cercano di fermare la scissione renziana in arrivo.

Nel Pd convivono due anime, al riguardo. I fautori della democrazia proporzionale ritengono che, nell’era dei populismi e dei sovranismi, il meccanismo maggioritario possa costituire un pericolo, perché a sbancare, a prevalere, nell’urna potrebbe essere una forza anti-sistema come la Lega di Matteo Salvini. I proporzionalisti «dem» ritengono inoltre che solo il sistema da loro sostenuto assicurerebbe la centralità del Pd.

Viceversa, i maggioritaristi «dem» sono convinti che soltanto grazie al Mattarellum (cioè al modello per tre quarti maggioritario che è rimasto in vigore per qualche legislatura) il centrosinistra, con Prodi, è andato al governo, dopo aver prevalso in cabina elettorale, non già nelle manovre parlamentari. I maggioritaristi del Pd ritengono, inoltre, che la carta populistico-sovranista non debba rappresentare uno spauracchio e che, al dunque, tra la stabilità e l’avventura, gli italiani sceglierebbero senz’altro la prima.

La tesi proporzionalista oggi è prevalente nel Pd. È prevalente anche perché la proporzionale piace e conviene assai al M5S, l’alleato nel governo Conte e forse, anche, nei prossimi appuntamenti elettorali regionali. La proporzionale conviene al Movimento perché, anche in caso di sconfitta alle urne, gli consentirebbe di dire l’ultima parola su accordi e coalizioni. Il che non è un benefit trascurabile.

Fino a ieri Renzi è stato maggioritarista. Il suo referendum costituzionale, del resto, era funzionale alla costruzione di un sistema elettorale fondato sull’aut-aut e non sull’et-et. Oggi ha cambiato idea, anche perché il suo rapporto con la dirigenza Pd non è certo idilliaco come quello di due sposi in viaggio di nozze. E poi l’ex premier teme che, a breve, possa rientrare al Nazareno il gruppo di Leu, ossia l’ala dalemiana e bersaniana uscita dal Pd proprio in contrapposizione all’egemonia renziana. E siccome Renzi ripete sempre che la sua stagione di governo si è interrotta più per i colpi del fuoco amico che per i proiettili del fuoco nemico, anche il più disinteressato alle vicende politiche deve aver afferrato che l’ex Rottamatore ha preso la decisione di andarsene dal Pd per costruire un partito cerniera al centro degli schireramenti, perciò in grado di attrarre anche gli anti-leghisti di Forza Italia. A meno che, immaginiamo noi, il Pd di Zingaretti dovesse escludere il ripescaggio della proporzionale che caratterizzò i decenni della Prima Repubblica. In tal caso Renzi potrebbe pensarci e ripensarci, per poi rinunciare, salvo farsi prendere dalla sindrome del kamikaze.

Il ragionamento di Renzi è chiaro: l’elettorato moderato del Paese non è adeguatamente rappresentato, come si evinde dal successo, negli ultimi anni, di formazioni estreme e radicali, populistiche e sovranistiche. È il momento di offrire a questi elettori, pensa Renzi, uno strumento in grado di contrastare queste pulsioni.

Ma tutte le scissioni, in Italia, presentano controindicazioni. Uno, perché l’elettorato di riferimento tende a pensare che le battaglie si fanno sempre nel partito, mai fuori. Due, perché ogni scissione porta a indebolire il quadro politico esistente e poi l’elettore, per sua natura, propende per la stabilità, è di solito propenso a premiare chi la sa preservare.
Il primo scoglio che dovrà affrontare Renzi, in caso di scissione, sarà proprio il rapporto con il governo Conte, di cui è stato il principale artefice. Se continuerà ad appoggiare l’esecutivo giallorosso non si comprenderà perché ha lasciato il Pd. Se non lo appoggerà più, non si comprenderà perché lo ha fatto sorgere. Insomma.

Ma la decisione di Renzi dipende, in ogni caso, dalle prospettive della partita sulla legge elettorale. Se il ritorno della proporzionale-proporzionale è, come sembra, più sicuro del giorno di Natale, l’uscita di Renzi dal Pd, attesa per oggi, sarà più scontata della neve sul Monte Bianco. Ma se il ritorno della proporzionale-proporzionale, ad un certo punto, dovesse saltare e questo stop dovesse rendere più difficile la corsa a occupare il centro del quadro politico, cosa farebbe Renzi? Non rischierebbe di restare spiazzato?
Comunque. Neanche un mago azzarderebbe un pronostico.
Giuseppe De Tomaso
detomaso@gazzettamezzogiorno.it

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