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Generazione di ignoranti ma accusando sempre il Sud

 
Lino Patruno

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Lino Patruno

Se siano in ritardo i ragazzi o la scuola, il dibattito è aperto. Se siamo diventati tutti ignoranti, è l’altra domanda

Venerdì 19 Luglio 2019, 17:02

16 Marzo 2025, 16:12

Avviso ai naviganti: questo articolo sarà scritto nella maniera più semplice possibile. Per consentire a un ragazzo di terza media o a uno dell’ultima di liceo non solo di leggerlo. Ma di capirlo. Non è un insulto, ma il risultato dell’ultima valutazione Invalsi, secondo la quale il 35 per cento di loro è incapace appunto di capire ciò che legge. Difficoltà di apprendimento. Così come avviene anche per la matematica e l’inglese. Soprattutto, dice lo stesso Invalsi, se il ragazzo è nato al Sud. Perché, vero o non vero, una botta al Sud non ci sta mai male.
Se siano in ritardo i ragazzi o la scuola, il dibattito è aperto. Se siamo diventati tutti ignoranti, è l’altra domanda. Sconcertando che ciò avvenga dopo un corso di studi di anni che sembra non essere servito granché.

Italia in primo piano ma non solo Italia. Recenti dati dicono che dagli anni ‘70 il quoziente di intelligenza dei giovani europei si è ridotto di sette punti percentuali per generazione. Proprio ora che hanno a disposizione Internet che potrebbe essere uno strumento portentoso di rinascimento invece di essere fra le cause dei loro mali.
Ma se tu tratti la scuola come se fosse l’ultima delle preoccupazioni. Se la scuola deve fare sempre i conti della massaia per andare avanti. E se ogni due anni la riformi puntualmente confondendola o peggiorandola, il risultato non sorprende. Una delle riforme è quella del 2003. E’ quella delle tre «I»: informatica, inglese, impresa. Quella secondo la quale la scuola deve educare più al saper fare che al sapere e basta. Non importa tanto che tu conosca l’italiano, essenziale che ti prepari a un mestiere. Si dice: meno conoscenze, più competenze. Concetto fumoso ma che sotto sotto vuol dire: più preparato un po’ a tutto anche se scambi Alessandro Manzoni per un cantante rapper.
Così quella che un tempo si chiamava «didattica» è frantumata in una miriade di «offerte formative», di nuovi cosiddetti insegnamenti invece della lingua madre e dei numeri. Si va dal corso di teatro al corso di vela. Con tanto di pubblicità e di promozione con la scuola ridotta a prodotto come un detersivo. Per attirare fondi che non bastano mai. Ma anche per qualche carriera scegliendo la scorciatoia delle mode del momento.

Informatica e inglese poi sono sicuramente importanti, di questi tempi. Ma non a danno di italiano e matematica compressi fin dalle elementari. Né a danno di storia e geografia. Con semplificazione generale sui libri di testo, dovessimo dare ragione a un Gramsci il quale diceva che lo studio è sforzo, dolore e noia. Ieri come oggi. Libri in cui le sintesi e le immagini sono oramai dominanti dovessimo, appunto, affaticare. Una bestemmia per adolescenti santificati, anche loro malgrado, fino a non costringerli al sudore. E con genitori che, invece di incitarli al meglio, ne diventano sindacalisti fino al punto che un voto negativo è considerato un reato da parte degli insegnanti. Da lavare, a volte, col sangue.
Poi i ragazzi parlano come ascoltano parlare. Sono infarciti da parole sempre più banali e sempre più rozze in un mondo in cui un capo di Stato comunica usando solo quelle ridotte di un tweet. Con azzeramento di sintassi e grammatica come se fossero pregiudizi borghesi. Si legge poco, si pensa male, si scrive peggio. Non basta avere in classe il tablet o la lavagna elettronica. E leggere su un video non sarà mai la stessa cosa di un libro, come ha ammesso lo stesso Bill Gates che toglieva il computer ai figli per studiare. Né è giusto incolpare i nuovi strumenti tecnologici, che sono buoni o cattivi secondo l’uso che ne fai. Che non può essere quello di YouTube.

In questa atmosfera vatti a mettere nei panni degli insegnanti. Non solo privati del rispetto della società. Non solo indifesi e sottopagati. Ma continuamente frastornati dai mutamenti oltre che delegittimati come maestri. E nuovi giovani insegnanti essi stessi figli dell’aria che respirano i loro alunni. Che non meritano tutto questo. Ma, come diceva l’eroina dei cartoni animati Jessica Rabbit, sono stati disegnati così. Mentre l’analfabetismo è sempre comodo per il potere che non ama chi più sa e più sa ragionare criticamente.
Fa poi essere del Sud questi ragazzi, e dalli addosso. Sempre con valutazioni inferiori a quelli del Nord. Ignorando il monito di un Nobel come l’indiano Amartya Sen: l’uomo è figlio del suo contesto. Se le famiglie sono più povere. Se c’è maggiore dispersione scolastica e si abbandonano gli studi per andare a fare il ragazzo del bar. Se da piccoli non ci sono gli asili nido pubblici. Se ci sono meno biblioteche. Se c’è meno tutto, non si può pretendere di più. Eppure, dice uno scrittore come Eraldo Affinati, quando vado nelle scuole del Sud trovo sempre una potenza fortissima negli occhi. Trovo intuizioni folgoranti. Ma le classifiche, si sa, si affidano ai numeri e ignorano tutto il resto.

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