Il presidente del Consiglio, in Italia, non ha i poteri dei capi di governo di altri Paesi democratici. Ma solo chi approda a Palazzo Chigi può ambire alla copertina della storia politica nazionale. In passato, in piena stagione democristiana, alcuni segretari e capicorrente dello scudocrociato contavano, nel partito, molto di più del presidente del Consiglio. Ma solo la guida dell’esecutivo assicurava un grado, un prestigio e uno status che il titolo di numero uno del partito poteva solo far sognare. Non a caso nessuno cita o ricorda più i nomi di quei personaggi chiave della Prima Repubblica che, pur avendo ricoperto cariche politiche e governative di indubbio rilievo, e pur avendo toccato straordinari livelli di influenza nel Paese, sono stati colpiti dalla dura legge dell’oblio
Guido Gonella (1905-1982), Benigno Zaccagnini (1912-1989), Paolo Emilio Taviani (1912-2001), Flaminio Piccoli (1915-2000), Antonio Bisaglia (1929-1984), Antonio Gava (1930-2008) e parecchi altri pezzi da novanta hanno gestito molto potere, nella Dc o nel governo, ma nessuno tra loro ha mai presieduto il Consiglio dei ministri, il che, diciamo, non ha giovato alla loro fama postuma. Solo chi, tra i big, democristiani e non, è riuscito a conquistare il Quirinale, ha potuto scongiurare il rischio della damnatio memoriae, anzi ha ottenuto molto di più in termini di carriera e popolarità, perché il Quirinale è il Quirinale, il sito più stabile e significativo della politica nazionale.
Ma torniamo alla particolare figura del capo del governo, disegnata dai costituenti - condizionati dal complesso del tiranno (dopo il ventennio mussoliniano) -, in guisa di primus inter pares. È vero. In Italia il presidente del Consiglio, a differenza dei suoi colleghi stranieri, deve badare più a mediare che a decidere, più a sopravvivere che a progettare. Ma se il presidente del Consiglio si dimette, cade l’intero governo. Se, invece, si dimette un singolo ministro, o se ne vanno più ministri, il titolare di Palazzo Chigi può sostituirli senza problemi rimanendo tranquillamente in carica.
Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono i due vicepresidenti del Consiglio più importanti mai visti sullo Stivale. Tanto che si sprecano le definizioni sull’esecutivo diretto dall’«avvocato del popolo»: diarchia, duumvirato, vicepresidenzialismo... Tutte formule tese a oscurare, se non a ignorare, il ruolo e l’identità del capo del governo.
Ma è davvero così? Un governo può fare davvero a meno del proprio capo formale, anche se costui è privo di un mandato elettorale, non dispone di una formazione politica di riferimento ed è stato scelto dai due principali azionisti della maggioranza spa? No. Un governo non può farne a meno, sia perché l’organo fa la funzione e la funzione fa l’uomo; sia perché all’estero bisogna parlare con una voce sola; sia perché, strada facendo, anche il più schivo, mite e disinteressato tra i premier si accorgerebbe che, per dovere e per piacere, gli incarichi di responsabilità vanno onorati, e che se la Costituzione attribuisce all’inquilino di Palazzo Chigi la prerogativa di coordinare l’attività dei ministri, prima o poi questa direttiva dovrà essere rispettata.
Dopo un anno di rodaggio, Giuseppe Conte ha preso confidenza con la macchina governativa, ma soprattutto si sta affrancando dall’ingombrante tutela dei suoi due dioscuri. Glielo consente il dettato costituzionale, glielo impone l’agenda quotidiana. Glielo suggerisce l’interesse generale dello Stato che, in una circostanza delicata come il richiamo dell’Europa all’Italia per il debito eccessivo, richiede una linea di condotta ragionevole e dialogante, senza colpi di testa o strappi istituzionali.
In breve. È vero che i due soci di maggioranza dell’attuale compagine ministeriale sono Salvini e Di Maio, ma, stringi-stringi, la golden share (la quota azionaria decisiva) la possiede Conte. È sufficiente, per Conte, ricordare che la sorte del governo è legata alle decisioni della presidenza del Consiglio, per calmare sùbito i bollenti spiriti di Matteo e Luigi, a meno che quest’ultimi non decidano di togliere la corrente a Palazzo Chigi e all’intera squadra di governo. Ma è risaputo che le crisi si sa come iniziano, ma non come finiscono. E oggi, nessuno tra Di Maio e Salvini, può sapere come evolverebbe il quadro politico se Conte comunicasse di andar via o se M5S e Lega lo silurassero mentre è al timone della nave. Troppe sono le variabili in campo. Troppe le esigenze. Troppi i retropensieri. Troppi i calcoli.
Il presidente del Consiglio ne è consapevole, sa pure che più la situazione s’ingarbuglia, più lui può alzare la voce per rivendicare il proprio ruolo costituzionale. Ad esempio, sa, Conte. che la controversia con l’Europa, non può concludersi con un salasso sulla pelle dei contribuenti italiani, cosa che farebbe da apripista al disimpegno dall’euro. Le macerie del tracollo europeo cadrebbero sulla testa di tutti, a cominciare da quella del capo del governo. Prospettiva che solo un kamikaze potrebbe accettare.