Si dice. Il Partito democratico è alle pezze perché ha dialogato più con le imprese che con le fasce deboli della popolazione. Ma è sostenibile, specie nell’era post-industriale, l’idea della contrapposizione tra le imprese e il resto della società? Verosimilmente la crisi del Pd va ricercata altrove, a meno che non si voglia stabilire ufficialmente che chi si preoccupa dei problemi delle imprese è condannato al fallimento politico e al disastro elettorale, mentre chi non se ne occupa è destinato al successo travolgente.
Comunque. L’antinomia tra imprese e lavoratori costituisce un principio sbagliato in partenza. I lavoratori non rappresentano l’opposizione all’impresa, tanto meno sono un’altra cosa rispetto all’impresa. Insieme con gli azionisti e i dirigenti aziendali, tutti i dipendenti sono l’impresa. Anzi, sono soprattutto loro l’impresa. Occuparsi del sistema delle imprese, impegnarsi a favorire la crescita economica, non creare ostacoli alla produzione industriale, ecco tutto questo significa produrre vantaggi (anche o soprattutto) per i lavoratori e sicurezza per le loro famiglie.
Invece, chissà perché, forse per colpa di un pregiudizio ideologico duro a morire, le imprese e i lavoratori vengono ritenuti entità differenti, realtà separate e addirittura confliggenti tra loro. Eppure non ci vuole molto a comprendere che se le imprese progrediscono e fanno profitti, cresce anche l’occupazione. Viceversa, se le imprese regrediscono, diminuiscono i posti di lavoro e l’intera nazione va in malora.
Sembrano concetti elementari, che - però - tuttora fanno fatica a trovare posto nelle tribune che contano. Anzi, l’impressione generale è che sia in atto una sorta di ri-demonizzazione dell’impresa, quasi che il lavoro creato dall’imprenditore sia figlio di una mente satanica.
Lo Stato è ridiventato l’idolo più osannato, più di Messi e Cristiano Ronaldo. Tutti invocano la protezione da parte dello Stato. Tutti esaltano la superiorità della mano pubblica rispetto alla mano privata. Intendiamoci. Gli imprenditori privati non sono tutti irreprensibili. Molti di loro devastano e saccheggiano la Stato manco fosse un pozzo senza fondo. Molti di loro sono più statalisti dei teorici dell’intervento pubblico a oltranza. Ma non si può svilire il ruolo dell’impresa fino al punto da disincentivare qualsiasi iniziativa individuale tesa a creare lavoro e ricchezza.
La fuga dei cervelli e l’esodo dei giovani laureati, soprattutto dal Meridione, sono diretta conseguenza della mortificazione del mestiere dell’imprenditore e della mitizzazione del ruolo dello Stato, che poi si traduce, in concreto, nello strapotere della classe politica.
Mettiamoci d’accordo. Cerchiamo di rispondere a questa domanda. Chi deve creare posti di lavoro? Se dev’essere l’impresa, l’impresa deve essere posta nelle condizioni di crescere senza essere additata, nella subcultura prevalente, a peccato originale, a fonte di tutti i guai. Se, invece, dev’essere esclusivamente lo Stato a provvedere all’occupazione generale, non rimane che prenderne atto: l’importante è saperlo, così nessuno si attiverà, sgobberà più di tanto nel perseguire conoscenza e competenza, e nel produrre beni e servizi. Tanto, ci penserà lo Stato a sfamare tutti. Tutti assistiti. Tutti assunti al servizio di Sua Maestà. E se gli stipendi che elargirà lo Stato Padrone corrisponderanno a un di presso alle cifre previste per l’imminente reddito di cittadinanza, pazienza. Tutti più poveri, ma anche tutti più uguali, così si consoleranno i decrescisti.
In teoria, efficienza ed equità non sono binari paralleli. È compito della politica avvicinarli senza alterare il giusto equilibrio. Se si privilegia troppo l’efficienza, si rischia di allargare la distanza tra ricchi e poveri. Ma se si privilegia troppo l’equità a scapito dell’efficienza, può spuntare qualche controindicazione. Una: ci sarà sempre qualcuno, nelle nomenklature del potere, che sfrutterà a fini personali la propria posizione di preminenza. Due: una società che dovesse tarpare le ali a chi è in grado di volare più in alto, aggiungerà altri tipi di ingiustizia ai dislivelli sociali provocati dalla dittatura della culla e dalla redditività del sapere e dell’impegno. Tre: una società che dovesse imboccare la via della gestione politica degli investimenti e degli interventi, cioè la via dell’indifferenza alla razionale allocazione delle risorse economiche, è destinata prima o poi a percorrere a velocità sostenuta anche la via dell’iniquità, come dimostrano i drammatici casi sudamericani di Argentina e Venezuela. Colà, per altro, le differenze sociali sono addirittura più profonde che nei vituperati Stati Uniti, ritenuti da sempre simbolo delle perversioni dell’economia libera.
L’attrazione assistenziale si giova della connessione sentimentale (direbbe Antonio Gramschi, 1890-1937) con la cultura statalistica.Nulla alimenta l’assistenzialismo più di un luogo comune che si fa cultura o di una cultura che si fa luogo comune. Un luogo comune che attribuisce allo Stato poteri divini in grado di moltiplicare pani e pesci per tutti. Un luogo comune che ignora un dato di fatto più chiaro del sole: lo Stato può redistribuire solo se c’è qualcuno che accumula. Ma se questo qualcuno viene messo nelle condizioni di non accumulare, successivamente cosa ci sarà da redistribuire? Quasi inevitabilmente lo Stato elargirà povertà, malessere, sfiducia, alienazione.
Ecco perché la crociata culturale contro le imprese desta più incredulità e sconcerto di di una corsa a fari spenti. Prima o poi si va a sbattere. Le imprese stanno ai sistemi economici come le democrazie stanno ai sistemi politici. Non sono il paradiso in terra, ma non si conoscono metodi migliori per garantire un posto di lavoro e un pasto giornaliero alla stragrande maggioranza del genere umano.