C’è una parola che il vicepremier Luigi Di Maio ieri mattina nella conferenza stampa in diretta streaming non ha mai pronunciato e che nel marasma di queste ore piene di propaganda e prese di posizione dischiude una prospettiva futura certa per l'Ilva: chiusura. L'Ilva non chiuderà. Non ora, non adesso, non come avevano promesso i 5 Stelle di Taranto in campagna elettorale, virando tra spegnimento immediato degli impianti e fermo progressivo delle fonti inquinanti ma insomma sempre giungendo ad una conclusione diversa da quella del capo politico dei grillini. L'ipotesi chiusura è l’unica a non essere stata presa in considerazione da Di Maio.
Il quale Di Maio, pur dicendo tutto e il contrario di tutto sul parere reso dall'Avvocatura di Stato (e non facendo l'unica cosa dovuta: rendere pubblico quel parere, in questo omologandosi al suo predecessore Calenda che firmò il contratto di cessione del complesso siderurgico, negandolo a sindacati ed enti locali) di sbarrare i cancelli di ingresso all'acciaieria più grande d'Europa proprio non pensa.
E questo può essere il punto di partenza per avviare, cessata la corsa al like e all'«io lo avevo detto», un ragionamento serio, concreto e coerente sul futuro dell'acciaio italiano e della città di Taranto. Ieri, finalmente, sul dossier Ilva è stato coinvolto il ministero dell'Ambiente, finora assente ingiustificato, pur essendo proprio la questione ambientale quella che sei anni fa ha portato la magistratura di Taranto a ordinare il fermo degli impianti di area a caldo, accusati da una perizia terza di essere fonte di malattie e morte per cittadini e operai. In attesa che qualcuno si ricordi di chiedere il parere anche al ministero della Salute, altro latitante eccellente, ecco che finalmente è ora di apparecchiare tutte le carte della vicenda, trovando un compromesso – chiamando così le cose finalmente con il loro nome – tra salute e lavoro, tra investimenti per rendere meno impattanti le emissioni dei camini e degli impianti del siderurgico e soldi necessari per garantire gli attuali livelli occupazionali. Arcerlor Mittal parte in salita, perché dovrà spendere almeno 2 miliardi di euro per realizzare il piano ambientale varato dal Governo Gentiloni malgrado i dubbi espressi da sindacati, organi di controllo e associazioni ambientaliste e senza l'avallo preventivo della magistratura di Taranto, chiamata a fine spesa a dare o meno il via libera al dissequestro degli impianti dell'area a caldo. E a pagare un numero di stipendi sproporzionato rispetto agli equilibri economici propri delle acciaierie di mezzo mondo, nelle quali ad ogni milione di tonnellata all'anno di acciaio prodotto corrispondono mille dipendenti: a Taranto, a investimenti ambientali effettuati, si potranno produrre al massimo 8 milioni di tonnellate di acciaio all'anno, salendo a 10 con le bramme importate dall'estero. Dieci milioni l'anno fanno 10mila dipendenti, sindacati e Governo puntano a tutelare gli attuali 14mila dipendenti.
Si garantisca la piena occupazione agli operai Ilva, si diano certezze alle loro famiglie e a quelle dei tarantini dal punto di vista ambientale e sanitario e la si smetta di giocare con le carte, il diritto, il presente e il futuro di Taranto, dicendo una volta per tutte cosa si vuole fare, come, con chi, con quali risorse, non solo per evitare, da tutti i punti di vista, una Bagnoli-bis ma anche su l'altra parola scomparsa da ogni ragionamento, da ogni programma, da ogni intervento: risarcimento. Taranto per 50 anni ha subito i fumi e le polveri dell'Italsider di Stato prima e dell'lva poi, sacrificando sull'altare della grande industria centinaia di morti (383 tra il 1998 e il 2010 secondo i periti del tribunale) la distesa di un milione di alberi di ulivo che c'era dove oggi svettano le ciminiere, il primo seno del Mar Piccolo, ora culla avvelenata dalla diossina delle prelibate cozze, centinaia di morti e una vocazione, quella turistica, che ora si cerca faticosamente di recuperare. Taranto aspetta: fatti, non parole.
Mimmo Mazza