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Nessuna certezza dopo il Conservatorio

Nessuna certezza dopo il Conservatorio

 
Emanuele Arciuli

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Emanuele Arciuli

Nessuna certezza dopo il Conservatorio

Mi auguro davvero che, anche sul piano delle scelte culturali (che sono strategiche per davvero) si trovino soluzioni in grado di dare risposte adeguate alle speranze di questi giovani

Martedì 23 Maggio 2023, 10:47

Ho appena terminato un master per il Conservatorio di Trieste, bellissima città cui sono legato da memorie antiche, amici a me cari, e tanti progetti musicali. Al Conservatorio, una struttura molto elegante, che promana un senso di sobria solennità, senza retorica e compiacimenti, ho trascorso due giornate di lezioni con ragazzi brillanti, che stanno partecipando a un master di perfezionamento biennale tenuto da alcuni pianisti italiani, tra cui il sottoscritto, e coordinato da Irene Russo e Luca Trabucco, validissimi colleghi che al Conservatorio di Trieste ci insegnano.

Al di là della bravura dei ragazzi (la parola eccellenza non mi piace, se ne fa oggi un uso che l’ha di fatto svuotata di significato), al di là della varietà di repertori che andavano da Beethoven a Berio, e oltre all’efficienza dell’organizzazione, mi hanno profondamente colpito le parole dei giovani studenti, le loro preoccupazioni per il futuro, e le ansie, vissute con grande compostezza ed equilibrio, ma con drammatica consapevolezza, per un mondo che cambia vorticosamente e che pare non dare più punti di riferimento.

Sono, ahimè, in una fascia di età che mi consente già di ricorrere all’espressione «ai miei tempi». Bene, quando in Conservatorio ci studiavo, e negli anni immediatamente successivi, c’erano alcune certezze. O almeno tali ci sembravano, prima che una serie di venti gelidi le sovvertissero.

I pianisti, ad esempio, se erano bravi riuscivano più o meno tutti a trovare una collocazione come insegnanti nei Conservatori. Ci fu un concorso (serio, durato tre anni, con quattro prove pratiche, che si tenne a Torino dal ‘92 al ‘95), che – con poche eccezioni – ha riconosciuto il lavoro e le qualità dei candidati, premiandoli con una cattedra.

Quanto ai concerti, esisteva una notevole quantità di società di concerti, quattro orchestre Rai, festival, e non era infrequente che pianisti dalla carriera «media», cioè bravi professionisti pur se non stelle del firmamento internazionale, mettessero in calendario i loro trenta, quaranta concerti l’anno, con cachet più che decorosi.

I bravi pianisti italiani «in carriera» erano, negli anni Settanta e Ottanta, una trentina, forse meno, e tutti o quasi (le eccezioni erano giusto Maurizio Pollini e forse un paio d’altri) alternavano ai concerti e all’insegnamento in Conservatorio (quando trovavano il tempo di farlo) dei corsi di perfezionamento. C’erano poi i dischi, che rappresentavano un punto d’arrivo, un traguardo ambito, anche perché le etichette discografiche erano poche, e gli LP (dagli anni 90 sostituiti dai cd) erano recensiti, venduti nei negozi più importanti, e facevano notizia.

Anche i concerti erano recensiti, persino sui quotidiani, e nelle grandi città poteva capitare di leggere due o tre diverse recensioni dello stesso recital. C’era la convinzione, ahimè ingannatrice, che le cose sarebbero proseguite così. Oggi non ci sono certezze.

I ragazzi frequentano corsi, partecipano a concorsi, si dannano l’anima per riuscire a trovare una strada, ma è difficile, perché gli spazi non sono aumentati e, invece, la quantità di talenti è cresciuta; almeno sul piano dell’efficienza meccanica (oggi sono decine i giovani in grado di suonar bene le Etudes di Chopin e persino di Ligeti).

Mi auguro davvero che, anche sul piano delle scelte culturali (che sono strategiche per davvero) si trovino soluzioni in grado di dare risposte adeguate alle speranze di questi giovani, e che la politica esca dal chiacchiericcio della «retorica sulla cultura» e faccia le cose sul serio. È un’emergenza nazionale.

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