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Femminicidio Cecchettin: ma Giulia aveva paura?

 
Emanuela Megli

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Emanuela Megli

Femminicidio Cecchettin: ma Giulia aveva paura?

Sabato 07 Dicembre 2024, 18:48

In tutta la storia di femminicidio di Giulia Cecchettin, colpisce che Turetta sia stato condannato all’ergastolo per omicidio aggravato dalla premeditazione, per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Non è invece stato accolto nemmeno l’aggravante del reato di stalking, che per legge, diventa un’aggravante quando la vittima ha paura per la sua incolumità, vive un perdurante e grave stato di ansia e cambia le proprie abitudini di vita. Una sentenza che “non corrisponde alla realtà dei fatti” scrive Elena Cecchettin su Instagram. Così come non è stata inflitta l’aggravante della crudeltà per le 75 coltellate inferte sulla vittima. 

Ma ciò che lascia sconcertati è il dato dell’abuso psicologico perpetrato ai danni di Giulia, così come di molte altre vittime a cui viene chiesto se temessero di poter essere uccise. 

Talvolta la paura non si manifesta con uno stato di coscienza razionale. Non arriva a considerare le conseguenze reali e possibili di una sensazione di timore, di precarietà della propria serenità e di possibilità di difesa. Al contrario, quando l’attacco psicologico si manifesta da parte di un soggetto famigliare, conosciuto o addirittura amato, la paura viene negata, normalizzata, taciuta. Nei casi di violenza di genere in ambito coniugale, la difesa disfunzionale comporta senso di vergogna, di colpa, rispetto alla percezione di attribuzione del ruolo coniugale di moglie e madre. E questo influisce sulla capacità di rappresentarsi il pericolo per come in realtà esso è. A questo si deve sommare l’aspettativa sociale che fa del matrimonio un altro titolo di merito da sfoggiare, per cui spesso maltrattamenti, tradimenti e attacchi alla dignità vengono taciuti. In primis a sé stesse. In fondo, - si leggerebbe nelle menti delle donne vittime di violenza psicologica -, “io so com’è fatto, so come prenderlo, posso gestirlo, posso cambiarlo, a me non farebbe niente di male. Si tratta solo di espressioni di rabbia, dice cose che non crede veramente, avrei dovuto evitare di dirgli ciò che penso, del resto so che perde la pazienza ed esagera. Non ha la capacità di gestire le sue emozioni, ma con il tempo sta cambiando, sta migliorando, mi dimostra in tanti modi che mi vuole bene, non è colpa sua se ha avuto un’infanzia difficile, senza affetto sincero, se non gli hanno insegnato ad essere umile, affettuoso a comunicare efficacemente, ad ascoltare fino in fondo”.

Ma è proprio questo che tradisce le vittime nelle fasi finali del loro rapporto, che le porta a concedere un ultimo incontro, un’ultima possibilità, un ultimo dialogo. Schiave anche della loro empatia, delle loro emozioni, della loro capacità di aiutare, anche quando il soggetto violento non vuole essere aiutato e strumentalizza la bontà della vittima, trasformandola in debolezza da prevaricare con il potere dell’anaffettività e del dominio, che diventa controllo psicologico del soggetto, di cui l’aggressore si nutre per provare il delirio di onnipotenza. Da qui le minacce velate ed esplicite, le svalutazioni, le colpevolizzazioni, fino allo sfinimento della vittima, perché la soddisfazione inconscia dell’aggressore non consiste nella distruzione dell’oggetto di controllo e di possesso, ma consiste nell’illudere la vittima della sua necessità di dipendere da lui soltanto, che tutta la sua vita è legata solo a lui. Questo “gli serve” perché egli è un bisognoso di un legame disfunzionale, è un dipendente affettivo. E in quel modo convince la propria preda e sé stesso, della sua onnipotenza. Non deve ucciderla, se vuole continuare a nutrirsi di quel “sentimento”. E infatti, non è tanto una competizione tra carnefice e vittima, non è solo mancanza di stima di sé da colmare, ma è la sicurezza di controllare la fonte che può riempire il proprio vuoto interiore ed esistenziale. La ammazza quando lei riesce a staccarsi psicologicamente da lui. La annienta fisicamente o si vendica diffamandola come persona, quando lei cessa di essere il suo rifornimento e crede di poter vivere in autonomia. E di stare bene o meglio senza di lui. La giurisprudenza non ha gli elementi della dinamica mentale e fa degli errori di valutazione quando esclude elementi di stalking considerando solo i fatti legati alle azioni prese singolarmente e fuori contesto storico e psicologico. Deve considerare lo stato di vulnerabilità e di coinvolgimento psico affettivo in cui si trova la vittima che ha a che fare un soggetto d’amore, che ha sempre considerato tale a partire dalla propria sfera affettiva intima e che, quando cambia volto nelle manifestazioni esterne, non riesce ad associare all’immagine dell’amato che si è costruita dentro di sé.

È solo a seguito di un’elaborazione dei microtraumi interiori, e di una nuova libertà psichica e fisica dall’ambiente tossico e contaminato, che la vittima può avere elementi chiari di discernimento delle proprie sensazioni e paure, ricondotte alla causa della minaccia percepita e non a sé stessa e alle proprie scelte, poiché giudicate come mancanze e incapacità dal proprio persecutore amato. Ci sono donne che hanno una soglia di tolleranza molto alta che non conoscono il proprio limite di sopportazione e che -spinte dal desiderio di corrispondere ai “doveri coniugali e famigliari” o emulandoli nel modello patriarcale acquisito, oltre alle aspettative sociali interiorizzate-, sopportano troppo, dandosi spiegazioni razionali. La strada da intraprendere sul piano delle responsabilità è interdisciplinare, nell’interdipendenza dei saperi e delle esperienze che stanno uccidendo ripetutamente i più sensibili, attaccandoli proprio nel vuoto normativo della difesa dei loro diritti costituzionali. Da un lato perseguire consapevolezza dell’autorevolezza delle donne, come persone libere -oltre i ruoli-, nella propria autorevolezza e autodeterminazione e dall’altro, perseguire sul piano legale indagini chiare finalizzate a ricercare le prove dell’aggressività del loro carnefice, come nel caso in questione in cui, Filippo Turetta inviava fino a 300 messaggi al giorno, adottando quegli atti persecutori ripetuti nel tempo, che suscitavano paure e ansie in Giulia, già prima del suo omicidio. 

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Emanuela Megli

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Un blog per saperne di più sul “SAPER VIVERE” di ogni giorno e sul decidere come comportarci, facendo chiarezza sulle parole e sui fatti, potendo avere un punto di vista utile per avere sempre più un’opinione personale su lavoro, scuola e famiglia. Ecco una serie di strumenti per poter comprendere gli eventi della vita e saperli gestire al meglio. Tutto questo è Agil@mente. A cura di Emanuela Megli, donna e due volte mamma, imprenditrice, Formatrice Coach di Soft Skills e scrittrice.

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