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Slogan e fanfaronate, l’incorreggibile obbligo del discorso politico

 
Pino Donghi

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Pino Donghi

Slogan e fanfaronate, l’incorreggibile obbligo del discorso politico

Si dice, a proposito di luoghi comuni, che ci sono parole per vincere le elezioni e altre per governare: la realtà è piena di spigoli insidiosi e mura portanti dove si infrangono le più sfacciate facce di bronzo

Sabato 15 Aprile 2023, 16:16

16:17

L’ultima di «The Donald» Trump (ma mentre scriviamo potrebbe già essere penultima) è che, se rieletto, «… risolverò la guerra russo-ucraina in 24 ore!». Con la stessa sprezzante noncuranza il vermilinguo Dimitri Medvedev ha dichiarato l’8 aprile scorso, in un afflato pasquale, tra passione resurrezione di Nostro Signore, «L’Ucraina non interessa a nessuno, sparirà». Si sente l’eco del nostro autarchico «Spezzeremo le reni alla Grecia» e molto più recentemente, e assai in sedicesimo, «Abbiamo abolito la povertà».

Slogan… pardon, fanfaronate! Si dice, a proposito di luoghi comuni, che ci sono parole per vincere le elezioni e altre per governare: la realtà è piena di spigoli insidiosi e mura portanti dove si infrangono le più sfacciate facce di bronzo. Ma tant’è! Il linguaggio tribunizio sembra un incorreggibile obbligo del discorso politico, avvertito come tale da chiunque pensi di dover conquistare l’attenzione elettorale, e siccome le elezioni non finiscono mai – come gli esami – ecco che ogni giorno, o quasi, ci tocca leggere dell’ultima sparata, l’ultimo imprevedibile annuncio, la promessa/minaccia definitiva, che saprà orientare la nostra preferenza, in cabina elettorale, quand’è il caso, o nelle intenzioni di voto, monitorate oramai settimanalmente. Che i social abbiamo amplificato la tendenza, non v’è dubbio, ma nessuno inventa mai la ruota: abbiamo già sentito tutto, più volte, dovremmo essere vaccinati. Pure, se la legge della domanda e dell’offerta ha ancora qualcosa da insegnare, più di qualcuno tentato dall’acquistare la merce avariata della propaganda ci circonda: il tribuno può sempre contare su un popolo di devoti, affascinato dalla certezza dell’impossibile.

Lo stesso popolo che poi, la storia ci insegna, vergognoso di sé più che dell’ultimo suo Eletto, se ne sbarazza poi con fastidio se non addirittura con ferocia, quella che i social hanno in effetti moltiplicato in progressione esponenziale: Dio ci salvi dai leoni della tastiera (ma una volta i conti si saldavano a Piazzale Loreto, sicché!).
Con spirito più arguto e, se ci è concesso esprimere un giudizio venato di nostalgia, con indubbia maggiore efficacia, un commentatore dell’epoca ebbe a chiosare magnificamente la parabola di Cola di Rienzo: siamo nella prima metà del 1300. Per chi abita a Roma, Cola di Rienzo è una piazza e una strada ben conosciute nel Rione Prati, buona borghesia della capitale, è anche una via dello shopping. Ma non sono molti a collocare nel XIV secolo la figura storica del tribuno il cui nome viene celebrato da un cammino di un chilometro e mezzo circa che, partendo da Piazza Risorgimento - quasi il Vaticano – ti avvicina alla prospettiva di Piazza del Popolo e del Pincio, appena superato il Tevere. Cola di Rienzo visse all’epoca di Papa Clemente VI e poi del suo successore Innocenzo VI, entrambi alla corte di Avignone. Pur di umilissime origini, ebbe la possibilità di studiare e si segnalò subito per intelligenza e capacità oratoria.

Fu Papa Clemente a incaricarlo notaio della Camera Apostolica, a rimandarlo a Roma e a sollecitare le sue abilità tribunizie contro lo strapotere dei baroni di Roma, segnatamente quello del Cardinale Giovanni Colonna. La sua biografia è ricca, nonostante i quarantuno anni della sua beve vita, e il suo tentativo di istituire una sorta di Comune contro le sopraffazione dei potentati nobiliari sollecitò la creatività musicale di Richard Wagner che, all’ultimo dei tribuni, dedicò un’opera dal titolo Rienzi. Figura controversa, a dir poco, piena di chiari e scuri, da tribuno in difesa degli oppressi a umorale tiranno, dedito a non pochi vizi, specialmente a quello della gola, si auto nominò Cavaliere (sic!), combatté i baroni, ora arrestandoli e minacciandoli di esecuzione, poi liberandoli, dimostrando una volubilità che si accompagnava a veri e propri stati di delirio.

In una pagina memorabile del suo Italians, pubblicato nel 1964, Luigi Barzini, forse il nostro giornalista più famoso dell’inizio del ‘900, già corrispondente ordinario per il Corriere della Sera di Luigi Albertini, dedica a Cola di Rienzo un gustoso ritratto. In un momento di auge, Cola invitò a cena alcuni dei famigerati baroni, così da consolidare la posizione del momento. Pare fu l’anziano Stefano Colonna a deriderlo per la pomposità dell’abito scelto per l’occasione dal «tribuno». Che, per tutta risposta, fece imprigionare tutti i commensali, minacciandoli di esecuzione. Salvo poi ripensarci, come pare gli succedesse spesso, timoroso delle possibile conseguenze. E fu appunto un cronista dell’epoca, un giornalista di quei tempi, a commentare, più sconsolato che divertito: «Che vale petere e poi culo stringere? Faticasi le natiche».
Altri tempi, altri social, altra classe.

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