Non è stato provato che Tiziano Nardelli fosse il mandante dell’omicidio del fratello Cosimo, non solo perché dalle intercettazioni mai emerge la sua intenzione di uccidere ma anche per l’assenza di un movente. È quanto scrive l’avvocato Luigi Danucci nel ricorrere in appello contro la sentenza che ha portato a una condanna all’ergastolo per il suo assistito, come mandante dell’omicidio di Cosimo Nardelli. Freddato con due colpi di arma da fuoco il 26 maggio 2023 in via Cugini, in sentenza la Corte d’Assise aveva escluso l’aggravante del metodo mafioso spiegando l’omicidio come il risultato di conflitti economici tra i due fratelli.
Una ricostruzione non condivisa dalla difesa secondo cui la data di costituzione della cooperativa – finalizzata a far ottenere la semilibertà di Cosimo Nardelli, allora detenuto in carcere per l’omicidio di Alessandro Cimoli - la concessione dei fondi in locazione a titolo gratuito al Thomas, figlio della vittima, così come anche il ruolo marginale nella società agricola di Cosimo Nardelli (assunto come impiegato), smonterebbero la tesi di un contrasto economico. Un movente, quello del denaro, che l’accusa aveva rintracciato anche in Paolo Vuto. Condannato al carcere a vita e ritenuto l’organizzatore della spedizione mortale, per l’avvocato Fabrizio Lamanna che lo difende, l’intromissione del suo cliente nelle questioni dei due fratelli era spiegata con la sola volontà di «conciliare» i dissidi tra i due. Dalle intercettazioni, per il difensore, non emerge «in nessun passaggio che Paolo Vuto abbia proposto, appoggiato o pianificato azioni violente nei confronti di Cosimo Nardelli». Un delitto materialmente eseguito dal figlio di Vuto, il 22enne Cristian Aldo.
Condannato a 30 anni di carcere e reo confesso di aver premuto il grilletto, secondo l’avvocato Salvatore Maggio, che lo difende, l’aggravante della premeditazione contestata dai magistrati inquirenti Milto De Nozza dell’Antimafia di Lecce e Francesco Sansobrino della procura ionica, non sarebbe attribuibile al 22enne. Non solo non emergerebbe mai dalle intercettazioni una sua volontà di uccidere, ma questo avrebbe agito d’impeto per difendere il genitore, convinto che fosse sotto il tiro armato di Cosimo Nardelli che con il padre aveva aperti contrasti. Una lettura condivisa anche dall’avvocato Danucci e spiegherebbe l’omicidio come epilogo di un «diretto ed esclusivo contrasto criminale». Alla guida della moto su cui viaggiava il killer c’era il 25enne Francesco “Kekko” Vuto. Condannato a 25 anni di reclusione, secondo l’avvocato Andrea Maggio che lo assiste, il 25enne era tornato nelle grazie del cugino Paolo Vuto da pochi giorni e voleva compiacerlo. In questa cornice si collocherebbe la chiacchierata tra i Vuto e Thomas Nardelli, a poche ore dal delitto. Chiacchierata in cui i tre avevano appreso che suo padre girava armato e intenzionato a ucciderli. Un crescendo di tensioni che per la difesa avrebbero dunque spinto Kekko Vuto a guidare fino a casa di Mimmo Nardelli senza «riflettere su quanto di lì a pochi minuti avrebbe compiuto e, quindi, eventualmente di desistere». Ricostruzioni che nei prossimi mesi saranno al vaglio dei giudici della Corte d’appello.