TARANTO - Sarà la corte d’assise d’appello di Potenza a stabilire se le emissioni dell'ex Ilva gestita dalla famiglia Riva hanno generato o meno un disastro ambientale e sanitario a Taranto. Lo ha deciso la Corte d'assise d'appello ionica che ieri mattina ha annullato la sentenza di primo grado emessa a maggio 2021 che aveva condannato i vertici della fabbrica e una parte della politica locale e regionale. Bisognerà attendere le motivazioni che dovranno essere depositate entro 15 giorni per capire le ragioni che hanno spinto la corte a prendere questa clamorosa decisione, ma appare altamente probabile che determinante potrebbe essere stata la questione legata alla costituzione di parte civile di due giudici di pace e un membro laico della Sezione agraria del tribunale (parificato di fatto a una magistrato).
È infatti questa una delle tesi su cui si è basata la richieste degli avvocati Pasquale Annicchiarico, Luca Perrone e Giandomenico Caiazza hanno basato la loro richiesta di trasferire il dibattimento dinanzi ai giudici lucani. Un secondo motivo era legato al fatto che molti magistrati tarantino vivono negli stessi quartieri in cui risiedono numerose vittime che in primo grado avevano ottenuto il risarcimento per i danni causati dallo stabilimento siderurgico. La decisione della corte presieduta dal giudice Antonio Del Coco, però, potrebbe essere stata l'applicazione dell'articolo 11 del codice di procedura penale che, come richiesto dalla difesa di alcuni imputati, prevede l’incompetenza funzionale del tribunale locale quando un magistrato assume «la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato» oppure «di persona offesa o danneggiata dal reato». Insomma l'atto con il quale i tre magistrati avrebbero chiesto configurerebbe la condizione perché il giudizio si debba svolgere fuori dal distretto che comprende Taranto, Brindisi e Lecce. A Potenza, appunto, competente sulle questioni penali che riguardano i magistrati in servizi in queste tre province.
In una delle prime udienza del secondo grado, gli avvocati Annicchiarico e Perrone hanno citato i tre casi: uno di loro, Nicola Russo, aveva ritirato la richiesta di risarcimento, ma due invece sono andati avanti. Quando le difese avevano sollevato per la prima volta la questione, nel 2016, questa situazione, i giudici di primo grado avevano sostenendo che la domanda di risarcimento era stata presentata nel 2016 quando i due magistrati avevano già cessato il loro ruolo. Per la difesa però contava non la data di costituzione di parte civile, ma il momento in cui era stato commesso il reato, periodo nel quale i due magistrati erano ancora in servizio. E potrebbe essere questo lo stesso ragionamento fatto dalla Corte d'assise d'appello ieri mattina.
Le centinaia di faldoni del maxi processo, in ogni caso, dovranno ora prendere la strada verso Potenza: il procedimento dovrà ricominciare dall'udienza preliminare e i pm lucani dovranno chiedere il rinvio a giudizio di tutti gli imputati. Completamente cancellate le pene inflitte a maggio 2021: 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola e al defunto dirigente Girolamo Archinà. E poi 21 anni e 6 mesi all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. 3 anni e 6 mesi per concussione all’ex Governatore di Puglia Nichi Vendola per le presunte pressioni fatte sull’ex dg di Arpa Puglia Giorgio Assennato affinché nel 2010 ammorbidisse la sua linea nei confronti dell’acciaieria tarantina. Nelle motivazioni, di quella sentenza la corte d'assise guidata da Stefania D'Errico e a latere Fulvia Misserini aveva sostenuto che la gestione disastrosa aveva arrecato un gravissimo pericolo per la incolumità» e la «salute pubblica». Una condotta portata avanti per 17 anni grazie alle connivenze politiche al punto da generare «danni alla vita e alla integrità fisica che, purtroppo, in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno». Tra il 1995 e il 2012, anno del sequestro dell’area a caldo, secondo la sentenza spazzata via dalla Corte d'assise d'appello, la politica aziendale era basata esclusivamente su «profitto e produzione ad ogni costo». Anche «in totale spregio di altri beni e valori costituzionalmente tutelati, come l'ambiente e la salute dei cittadini, nonché la dignità e la sicurezza dei lavoratori».
A distanza di 12 anni dal sequestro delle fabbrica, insomma, è come se dal punto di vista giudiziario non fosse accaduto nulla. E la prescrizione dei pochi reati rimasti ancora in piedi potrebbe ora sopraggiungere e chiudere tutto in un nulla di fatto.
In linea teorica sia la Procura di Taranto che quella di Potenza potranno far ricorso in Cassazione: lo si capirà dopo il deposito delle motivazioni del dispositivo letto ieri.