Scanzonato ma mai irriverente. Rigoroso ma non pedante. Impegnato senza essere «barricadiero»: Lino Guanciale si racconta in occasione della prima, stasera alle 21, de L’uomo più crudele del mondo, spettacolo inaugurale della stagione di prosa del Teatro Fusco, a Taranto, per il cartellone dell’amministrazione comunale col Teatro Pubblico Pugliese. Due le repliche a Taranto, domani alle 18, mercoledì 22 alle 21. Dal 17 al 19 sarà al Curci di Barletta, il 20 al Nuovo Teatro Verdi di Brindisi e il 21 novembre al Piccinni di Bari, fuori abbonamento nella stagione teatrale Altrimondi 2023-24 dell’assessorato alla Cultura. Protagonisti Lino Guanciale e Francesco Montanari, testi e regia di Davide Sacco.
Quale progetto è «L’uomo più crudele del mondo»?
«È uno spettacolo in giro già da due anni con brevi periodi di tournée per incastrare i reciproci impegni miei e di Francesco Montanari, a cui sono legato da un’amicizia ormai diventata fratellanza. Se solo avessimo potuto, avremmo portato ininterrottamente questo progetto che sconvolge il pubblico soprattutto nel finale esplosivo. Peraltro lavorare con Francesco Montanari e Davide Sacco, arricchisce molto il mio percorso. Davide e Francesco hanno una politica teatrale molto vicina al teatro da cui provengo».
E qual è il teatro di Lino Guanciale?
«Quello che incontra la città e le persone facendole parte di un discorso teatrale al di là dei luoghi comuni riguardo lo “spettacolificio”. Se il testo è forte, se lo spettacolo parla alla pancia e alla testa e attiva processi di discussione nella visione del mondo, allora riesce nel suo compito: costringere a guardarci attraverso questi “specchi di carne” che sono gli attori. Di più: si tratta di un testo scritto da un drammaturgo giovanissimo. Da giurato del premio Riccione (il più importante premio di drammaturgia in Italia) la scrittura teatrale è molto forte e viva nel nostro Paese, ma gli autori rischiano di trovare poco spazio produttivo nel nostro mercato. Motivo in più, per attori più affermati e conosciuti, aiutare a dare spazio a chi lo spazio merita».
Lino Guanciale, abruzzese di Avezzano, da grande voleva fare il giornalista, poi il medico. E l’attore, cosa c’azzecca?
«L’ultimo anno di liceo mi levai lo sfizio di recitare: ne ero sempre stato attratto ma temevo che stare sul palcoscenico mi avrebbe sconvolto. Avevo ragione ma in positivo: temevo il giudizio degli altri ma sul palcoscenico riuscivo a gestirlo, mi sentivo accettato per quello che ero».
Poi gli studi universitari a Roma: quando riappare Lino Guanciale attore?
«Ho interrotto Lettere e Filosofia, con una media del 30 e lode, alla soglia della tesi. Mollai tutto per entrare all’Accademia nazionale dell’arte drammatica Silvio D’Amico e conseguire quel diploma di laurea».
Perché l’attore?
«Gli attori danno carne alle parole, ricostruiscono a posteriori il meccanismo meraviglioso che ci porta ad esprimerci attraverso linguaggio e corpo. Ogni nostra parola fiorisce da un discorso che si fa con sé stessi o con altri. Questo meccanismo mirabile che sorge spontaneo durante la quotidianità, gli attori sono professionisti nel replicarlo».
Qual è stata l’esperienza più forte della sua vita?
«La paternità. La più sconvolgente e rivoluzionaria che ha messo sotto una nuova prospettiva il mio lavoro creativo ma anche civile: vorrei riprendere al più presto a collaborare con le missioni fuori dall’Italia di UNHCR, per costruire una sensibilità sul tema dei rifugiati».
Progetti futuri?
«Un’estate fa è disponibile su Sky, sta andando a meraviglia. A fine novembre debutterà Noi siamo leggenda, serie per Raidue: il mio personaggio ha il superpotere più sconvolgente che arriva verso la fine della serie, una bella scommessa della Rai e della casa di produzione Fabula. A primavera riprenderemo le riprese di Ricciardi, per girare la terza stagione, tra un anno in tv. E all’orizzonte cose di cinema e tv interessanti di cui non parlo per scaramanzia. A teatro, invece, oltre a L’uomo più crudele del mondo, sarò al Piccolo di Milano tra gennaio e febbraio con Ho paura torero, spettacolo tratto da un romanzo di Pedro Lemebel, autore cult sudamericano, bandiera del movimento LGBT ed estremo oppositore del regime di Pinochet».
Molte scene di «Un’estate fa» sono state girate in Puglia: qual è il suo rapporto con una regione che la ama?
«Di amore totalmente ricambiato: qui c’è un fermento culturale, una capacità e una volontà di investire il proprio tempo e le proprie risorse creative, anche da spettatori nei progetti culturali e teatrali, che ha pochi uguali nel nostro Paese. E qui ho un forte legame familiare. Mia moglie è pugliese, va da sé che “casa mia”, immaginario allargato di relazioni e luoghi, è anche la Puglia. A cominciare dai bellissimi rapporti con i familiari di mia moglie che ormai sono i miei. La prima volta sono stato a Bari nel 2010, per La resistibile ascesa di Arturo Ui, di Brecht. Ci dissero che era cominciata da poco la riqualificazione della Città vecchia, meraviglioso passeggiare tra i vicoli, sulla Muraglia. Suoni, odori e colori: torno sempre volentieri».