La storia recente del western si gioca sul piccolo schermo. Racconti d’epoca o contemporanei, decostruiscono l’immaginario del West e lo rileggono alla luce di questioni attuali (dove sono le donne? Come rendere giustizia alle minoranze oppresse?), senza dimenticare di intrattenerci. Perché 1923, come il suo prequel (1883) e il suo sequel (Yellowstone), è consacrato alle tribolazioni di una famiglia di rancher del Montana. Il creatore, Taylor Sheridan, segue l’intero spettro della saga dei Dutton, dal loro arrivo nel 1883 in Montana alla loro lotta per la sopravvivenza di fronte alla rapacità del big business in Yellowstone. A seguire e a precedere, 1923, anello di congiunzione tra l’America delle origini e quella contemporanea. I suoi intrighi affondano negli anni Venti e immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale. Il mondo galoppa verso la modernità e il materialismo dilaga mettendo a rischio i grandi spazi e l’idea stessa di natura incontaminata.
Il patriarca al centro della storia è un altro nonno, Jacob Dutton, proprietario autoritario sostenuto dalla sua consorte, Cara, altrettanto ardimentosa quando si tratta di difendere i propri familiari e le proprie terre. L’autore, specializzato nel lustrare star in disuso e ravvivare i miti fondatori dell’America e del suo cinema, il cowboy per Costner (Yellowstone) e il gangster per Stallone (Tulsa King), assume la maturità di Harrison Ford per mettere in scena la nostalgia del sogno americano. In questo capitolo racconta i peccati che lo hanno stroncato sul nascere: il genocidio dei nativi, con campi di educazione annessi, e l’avidità capitalista. Meno lirica ma più politica del suo prequel, ode alla libertà e all’emancipazione, 1923 denuncia quello che c’è di più mortifero nei valori dell’America «tradizionale».