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Icaro, il lavoro tradito: l'ossessione del profitto calpesta i bisogni

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Icaro, il lavoro tradito: l'ossessione del profitto calpesta i bisogni

Parla Angelo Salento, 53 anni, Professore associato di Sociologia economica, del lavoro e delle organizzazioni all’Università del Salento

Domenica 28 Aprile 2024, 07:00

BARI - Come sempre l’immaginario viene prima del numero. Lo precede, lo giustifica. Varrebbe la pena rileggere Dialettica dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor Adorno per recuperare il nesso fra industria culturale di massa e accettazione dell’esistente. Un esercizio di addomesticazione, di colorata inclinazione all’obbedienza che si potrebbe sintetizzare in una frase così efficace da sembrare uno slogan: «La grande forza del neoliberismo sta nella conquista della produzione culturale, cioè nell’idea che questo tipo di regime distributivo possa sempre soddisfare i sogni delle persone anche quando ne tradisce i bisogni».

Il bi-sogno tradito è quello che «Icaro» riattraversa con Angelo Salento, professore di Sociologia economica e del lavoro all’Università del Salento nonché membro del collettivo per l’Economia fondamentale, l’ultima trincea che ormai resta da spolpare. La riflessione si sviluppa da una domanda: come sta cambiando il lavoro? La risposta più immediata è che, per così dire, gli Anni Ottanta non tramontano, cioè continuiamo a esser dentro «l’onda lunga della trasformazione neoliberista» che, nel frattempo, ha trovato alleati e moltiplicatori per strada. L’austerity, innanzitutto, lo strumento privilegiato per «aggredire tutta quell’area del benessere condiviso che era legata all’economia pubblica». Da quarant’anni a questa parte «siamo rimasti ancorati all’idea - spiega Salento - di una attività economica che deve generare dei livelli di profitto crescenti, sostanzialmente estraendoli dal mondo dell’economia reale».

Ci sono dentro tutti, le grandi imprese naturalmente. Ma ora anche le piccole e le medie. Si ragiona ovunque allo stesso modo. La riduzione del costo del lavoro diventa la chiave del successo competitivo mentre l’Occidente si spoglia della propria capacità di produrre e fabbricare cucendosi addosso una economia sempre più leggera, tutta servizi e speculazioni: «Il punto - riprende - è che le filiere di produzione sono state fatte a pezzi e si sono allungate geograficamente, diventando catene globali del valore». Molti pezzi di queste filiere, anche quelli strategici, sono volati in altre parti del mondo, sempre per esigenze di riduzione dei costi del lavoro. «E questo - continua - ha comportato nell’immediato costi sociali in termini di licenziamenti e costi di conoscenza in termini di perdita del know-how».

Tradotto: arriva il Covid e nessuno sa fare le mascherine. Sull’Occidente deindustrializzato, dove il lavoro è mal pagato e politicamente non rappresentato, in cui alla riduzione dei salari diretti si somma quella dei salari indiretti (cioè il rincaro di beni e servizi fondamentali), sta per abbattersi pure il futuro. O meglio il fantasma del lavoro futuro, per parafrasare Dickens. Cioè quello che rischia di essere appaltato, in tutto o in parte, all’Intelligenza Artificiale, nuova frontiera dell’umanità emancipata. Bisogna gioire, altrimenti si passa da reazionari. Eppure tornano alla mente le parole di Karl Polanyi ne La grande trasformazione: «Una fede cieca nel progresso spontaneo si era impadronita della mentalità generale e con il fanatismo dei settari anche i più illuminati premevano per un cambiamento senza limiti né regole della società. Gli effetti della vita sulla gente erano tremendi al di là di ogni descrizione».

Il riferimento è all’impatto devastante che la rivoluzione industriale ebbe sulle masse inglesi nel 1700 in virtù di quel nesso innominabile tra pauperismo e progresso. Ogni volta che l’economia si trasforma e scuote il suo corpaccione le vittime non si contano. Sarà così anche questa volta? «Tutti gli avanzamenti tecnologici - commenta Salento - sono stati utilizzati per sostituire il lavoro umano e ridurne i costi. Teoricamente non è l’unico uso possibile. La tecnologia dovrebbe servire ad ausiliare il lavoratore, non a renderlo più povero».

Eppure finora è stato così: il valore prodotto dall’avanzamento tecnologico è stato assorbito dal profitto non redistribuito in termini di ricchezza condivisa. E c’è anche un’aggravante. Polanyi scriveva in quel 1944 che, pur nella sua tragicità, custodiva nel proprio ventre i bagliori dei Trenta gloriosi. Da quella prospettiva era possibile prevedere quello che lui chiamava il contromovimento: «Dal ‘50 al ‘79 - conclude Salento - c’è stata una redistribuzione della ricchezza in termini di reddito e una costruzione in termini di welfare, diretto e indiretto. Il compromesso fordista. Poi il neoliberismo ha cambiato le regole. Il punto è questo: siamo oggi in grado di riprodurre un nuovo trentennio glorioso?».

La sfera di cristallo non ce l’ha nessuno e la domanda, quasi retorica, resta appesa. Non c’è risposta matematica. Anche perché non è più questione di numeri e nemmeno di sogni. Ma solo, drammaticamente, di bisogni.

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