L’annuncio da parte di Disney+ di una nuova serie sul delitto Scazzi ha fomentato un po’ ovunque critiche e lamentazioni, in specie da parte di chi ritiene che l’orrore consumato ormai più d’una decade fa sia stato riccamente spremuto dai media e che l’ennesimo ritorno ad Avetrana altro non sarebbe che l’accanimento di un mercato feroce che specula sul Male.
Poiché conosciamo buona parte delle menti coinvolte nell’operazione, ci sentiamo anzitutto di consigliare il libro da cui la serie è tratta, firmato da Flavia Piccinni, che affronta la questione con distacco e sensibilità esemplare. Ci premerebbe poi sottolineare che un’opera artistica - che resta tale anche in forma di documentario - andrebbe vista prima d’essere giudicata, meglio ancora se privi degli occhiali deformanti dell’appartenenza: una prospettiva per cui le cose accadute nel mio giardino non si possono commentare: il delitto di Avetrana è stato, al pari del rapimento del figlio di Lindbergh e di centinaia di terribili casi simili, oggetto di libri, film, reportage e tesi di laurea. Prodotti come la serie cui sta lavorando, tra l’altro, un regista di livello come Pippo Mezzapesa, contribuiscono a oggettivizzare le nostre zone d’ombra aiutandoci a guardarle in maniera diversa: perché possiamo continuare a osannare film sui serial killer («Zodiac» di Fincher è universalmente riconosciuto come un capolavoro, ma ci sono dozzine di opere valide su, ad esempio, i delitti di Charles Manson) mentre su Sarah Scazzi «non se ne può più», e ogni nuovo approccio è «monetizzare sul dolore»? Ogni tentativo di decodificare il Male senza senso che indubbiamente ci ha toccato da vicino è ben accetto, e continuare ad ascrivere queste operazioni al puro business (il quale ha una sua parte, ovvio, ma tutto è business: financo i social sui quali di ciò si è largamente dibattuto) diventa semplificatorio e forse anche un po’ de-responsabilizzante.
A meno di non considerare «A sangue freddo» di Truman Capote un libro disonesto, o tutta l’arte che - piaccia o meno - prova a spiegare la realtà intingendo la penna nella nera cronaca d’un fatto efferato, bisognerebbe riuscire a de-coinvolgersi emotivamente (che cavolo: son sempre le nostre terre!) per immaginarsi spettatori avulsi, capaci di valutare un’opera senza marchiarla per partito preso, considerandola cioè una delle tante dedicate a un caso che - inutile illudersi - continuerà per decenni a scavare nell’animo di artisti, giornalisti, analisti e sociologi, perché parla di noi non solo come pugliesi, italiani e occidentali ma proprio in quanto esseri umani, pieni sì di nobiltà e affetti ma anche di crudeli istinti criminali che richiedono d’essere sondati. E chi può incaricarsi d’un siffatto lavoro se non l’arte?