POTENZA - Il grande schermo nella hall del San Carlo e la marea di persone accalcate sotto, con il viso all’insù e un numeretto tra le mani, fotografano il delirio di ieri mattina davanti alle casse dell’Ospedale San Carlo di Potenza per prenotare e pagare il ticket. Da lunedì le attese si protraggono anche fino a cinque ore per via del nuovo sistema. In piedi, addossati l’uno all’altro, senza potersi sedere. Con la pandemia, infatti, l’ingresso del San Carlo è un grande spazio vuoto. Sono rimaste solo pochissime sedie nella zona alle spalle della postazione riservata alle hostess. «È una situazione allucinante - ripete Rosa Sagaria in attesa del suo turno -. Sono qui da stamattina presto. Sto aspettando da più di due ore. Domani devo fare una visita e devo pagare, ma ancora non se ne parla. I numeri scorrono così lentamente». A lei si associa Paola Russo. «Comprendo il cambio del sistema di prenotazione, ma quando si cambia bisognerebbe prima capire come funziona. Le persone non possono stare qui una giornata».
E poi aggiunge. «La vede quanta gente c’è? Hanno dimenticato che c’è ancora il Covid? I biglietti con il numero di prenotazione letteralmente volano dalla macchinetta e bisogna prenderli a terra. Il detergente non va sulle mani ma verso il muro». «Siamo a 25, il mio numero è 57. E devo andare a prendere mio figlio a scuola», aggiunge un’altra signora.
E ancora: «Non è giusto aspettare tanto. E chi no sta bene o arriva da fuori Potenza?». È il caso di Angelo Castellaneta. «Vengo da Sant’Arcangelo, ho accompagnato mia madre di 83 anni. L’appuntamento era alle 10.30. Alle 10 ero qui, ma c’erano 59 persone in coda. La macchinetta per le esenzioni non riconosce la ricetta. E così mia madre è salita per la visita e io sono in fila e anche se non devo pagare, senza il timbro sulla ricetta non posso andar via, serve l’ok per il referto».
«Dicono che è cambiato il sistema da due giorni - sottolinea Antonietta Carbonella - ti mandano da una parte all’altra, da un ufficio a un altro, da un reparto a un altro, code di qua e di là e alla fine non si risolve il problema».
È seduta su una sedia nel tratto esterno che precede l’ingresso al San Carlo, dove controllano il green pass e si dividono le entrate e le uscite. «Fa freddo, ma sto più tranquilla rispetto alla calca che c’è all’interno - commenta -. Ho provato e riprovato a chiamare al Cup, senza alcun risultato. Prima funzionava così bene. Devo fare un esame, che privatamente costa circa 300 euro. Sono venuta qui e ho trovato la sorpresa».
Fila per tutti anche per i bambini. Ha 9 anni e un braccio ingessato. Attende da più di un’ora con il suo papà la visita di controllo in traumatologia. Una caduta mentre pattinava e ora devono valutare se può togliere il gesso. È andata bene, invece, a una signora: 20 minuti per un referto.
E un’altra pragmaticamente ripete: «Ci vuole pazienza». «Paziente» e «pazienza», dal latino «patiens-entis», participio presente di pati: soffrire sopportare. E dopo una mattinata così nella hall di un ospedale strapieno di «pazienti» si comprende bene la correlazione tra i due termini. Ma non si può pensare che «la persona affetta da una malattia, e più genericamente chi è affidato alle cure di un medico o di un chirurgo», sempre come recita il vocabolario Treccani, debba perché «paziente» sopportare tutto. Salvo aggiungere. «E il Covid?». «Perché? C’è il Covid?»