Apprendo dai giornali di una classifica che raduna le spiagge d’Italia, e non solo, volta a indicare le più belle. Sono rimasto stupito e soddisfatto di quanto, scrutinando, ho appreso della Puglia, che custodisce alcuni tesori naturali condivisi tra terra antica e nobile e mare Adriatico. Amici baresi, ma non solo, mi richiedono un commento, una riflessione, un ricordo. E si dicono pronti a chiedermi ospitalità per una vacanza, un viaggio istruttivo, una festa. In cambio sono disposti anche ad ascoltare una meditazione non petulante per indicare un segno, un’icona, un simbolo che identifichino con pertinenza la nostra indole, la fisionomia di questa terra dove abbiamo avuto la sorte di nascere.
Come diceva Tolstoi, racconta il tuo villaggio è racconterai il mondo. Suggeriremo qualcosa. Cominciamo dalla spiaggia. Da noi si dice, e non mi sono mai curato di fare ricerche etimologiche, Ngann a mar per indicare, più che un punto topografico, una condizione. Come dire, prospiciente in modo altero, sfacciatamente schietto, non protervo, ma orgoglioso, all’azzurro delle acque. Ngann a mar sta per bocca a bocca col mare, come un bacio salmastro, un iniziale e soave idillio che prelude ad un amplesso, evidentemente. È difficile, dunque, per me che ho avuto la fortuna di consumare la breve infanzia nelle estati bambine di Santo Spirito (sempre troppo brevi le infanzie), indicare altro che non sia quello scoglio minuscolo e scabroso, ma pianeggiante, che il mio giardinetto dolce di fichi fronteggiava.
Le maree indulgenti non lo isolano mai del tutto e il mare può ripulire con diligente operosità di cavalloni turgidi di alghe odorose (anche troppo) la pietra dei lasciti scurrili dei bagnanti occasionali. La mia spiaggia era detta «prima scala» dai villeggianti degli anni Cinquanta per via di quell’accesso che la rende praticabile o «spiaggia del castello» per via del fortilizio di avvistamento che troneggia sull’angolo del porto. Ho sempre voluto pensare che fosse il residuo marziale di una difesa dalle scorrerie saracene del mio piccolo borgo, attribuendogli una storia solenne e bellicosamente austera. Forse non è mai stato altro che una caserma della Guardia di Finanza che ha continuato a vigilare perché gli infami bombaroli non straziassero troppo il mio povero, piccolo Adriatico domestico di Santo Spirito Bari. A proposito di piccolo, il mio scoglio, per via del gioco della sua minuscola orografia ha creato, nei secoli, un’ansa, un golfetto d’acqua trasparente che noi, bambini chiamavamo «mare piccolo». Qui si poteva, e ancora si può lasciare, che anche inesperti ragazzini si bagnino tranquilli. Oggi possono solo far questo. Un tempo quel laghetto concluso su tre lati era ricco e pescoso di «salipci». Non so come si chiamino in italiano zoologico quei microscopici crostacei che brulicavano felici e trasparenti in quelle increspature di mare. Non c’è traccia di vita visibile, oggi, niente. Neanche si vedono più arrancare, sghembi e veloci, i granchietti bruni sempre guardinghi e famelici. Nonostante tutto, ebbene si, questa è la spiaggia che prediligo. Non se l’abbiano a male i Pugliesi costieri (è difficile non essere costiero in Puglia), non si offendano e non mi chiamino sentimentale. Lo so bene che ci sono molte plaghe meravigliose e assai più ridenti e rigogliose di rupi, pinete, acque cristalline, del mio scoglio, ma, che volete farci? Quello è, appunto il mio scoglio. E voglio che tutti quelli che lo visitano, lo praticano, lo usano, lo lascino possibilmente più pulito di come l’hanno trovato. Facciano così con tutti gli scogli, le radure, le sabbie, le rupi, le spiagge, le coste di Puglia. Non pretendano che sia il mare, alla prima tramontana o al primo maestrale, a ripulire insieme ai rottami e ai rifiuti la maleducazione dei cittadini. Andare mare mare è un modo di dire rafforzativo di un incedere costiero che non trova altra definizione. Si, certo, si può anche dire «bordeggiare» o «camminare lungo la costa», ma, vogliamo proprio fare il paragone con questa perfetta locuzione?
E vediamo di suggerire l’icona affabile per la Puglia. Come sottrarsi al fascino di due pressanti suggestioni? La Storia e il Lavoro. La Storia di questa terra antichissima raccontata da case, chiese, castelli, opere, terre coltivate, terre rispettate e custodite per dopo, per il futuro. Porti, mura, arte, città e paesi. E, perfino laboriosi messaggi enigmatici dove filosofia e ansia di sapere si erigono sbiancando l’orizzonte nella solennità maestosa di quella domanda metafisica che è Castel del Monte. Ma non sono, anche queste, opera, lavoro, fatica? È il lavoro, dunque, che ha scritto minuziosamente la Storia. Che sia questa l’icona, il simbolo, l’esauriente messaggio. Suggerisco un oggetto, un semplice oggetto, che congiunge l’opera minuziosa del muratore, meglio dello scultore, con la fatica onesta del contadino: la macina del frantoio, quella pietra lavorata e scalpellata che trita, sminuzza amalgama olive turgide. Dal becco del grande catino esce il primo olio color dell’oro. E canta.