Sabato 06 Settembre 2025 | 18:19

Dai pastori al jazz, il presepe rappresenta il mondo

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Quando c'è la salute, c'è Michele Mirabella

E quest’anno nella scena della Natività metterò un abbonato al Teatro della Scala che dice: «Viva l’Italia antifascista»

Domenica 10 Dicembre 2023, 12:24

Mia madre diceva che a Santa Lucia le giornate si allungano di un passo di gallina e, di certo, lo dicevano sua madre prima di lei e la madre di sua madre e via, così, inerpicandosi su per li rami del matriarcato sentenzioso.

Da bambino mi sforzavo di immaginare questa sussiegosa gallina tutta compresa nel compito decisivo di scandire la progressione di solstizi ed equinozi. Ma chi glielo faceva fare? E mi arruffavo a contarli quei passi di gallina e decisi che occorreva optare per una gallina decisa e robusta in grado di fare un passo in più al giorno (uno, due, tre, quattro) o, addirittura capace di contare in progressione geometrica (uno, due, quattro, otto e così via) per arrivare puntuale e stremata all’appuntamento con il solstizio d’estate, quando il sole trionfante spadroneggia per una lunghissima giornata.
Intanto, però, in attesa di quei tepori e di quelle caldane, ho messo in opera il presepio. Quest’anno l’assetto strutturale è pianeggiante e solo qua e là collinoso, un poco brullo con qualche zona sabbiosa e solo un laghetto con fontana circondata da palme noncuranti della presenza, poco più in là, di abeti dolomitici che non ci azzeccano niente ma fanno tanta scena. Il presepio è il mondo.

Non manca niente in un tripudio sincretistico di figure d’ogni razza e provenienza: tutta la gamma dei pastori, da quello tradizionale con pecore e abbacchio regolamentare sulle spalle al porcaro con maialini e scrofa premurosa, alla donna con formaggi e cacicavalli allo zampognaro da manuale, si mescola allo scrivano ottocentesco, al venditore di libri usati, al fiaccheraio e al cantiniere. Da un pezzo ho esiliato il cacciatore dietro un albero e gli ho messo un fiore nel fucile. Ora non spara più agli uccellini, passatempo idiota e crudele, e io gliene ho messi tre sulle spalle. La lavandaia troneggia vicino alla grotta ed esibisce una generosa scollatura che mostra, grazie di Dio, mentre si avvicina alla Luce del mondo. Sono sicuro che Questa non rinnegherà la pia governante e il suo decolleté che sono opera sua. Nel presepio sono sgraditi i bacchettoni.
A me piace il presepio regolamentare, s’intende, con tutti i personaggi e i requisiti che la tradizione impone: Sacra Famiglia, bue, asinello, angelo che squaderna il manifesto con annuncio di pace, lavandaia, pastore semplice, pastorella con caciotte, guardiano di porci, pescatore, suonatori di cornamuse, vagabondo addormentato. Lavoratori d’ogni risma che esibiscono i manufatti e i frutti della loro fatica. Qualcuno presago delle imprese umane esibisce patate: frutto, all’epoca della nascita della Luce nel mondo, sconosciuto sulla terra conosciuta.

Ho nostalgia di tutto questo e pratico con testardaggine la minuscola edilizia del presepio anche a casa mia, casa di un adulto che non confonde più gli occhi sacrificati di Santa Lucia con due uova. Ogni anno lo aggiorno con nuovi pastori vagabondi, ma, anche, con ospiti pellegrini dell’attualità e della cronaca. Quest’anno, infatti, metterò un abbonato al Teatro della Scala che dice «Viva l’Italia antifascista».

Devo ammettere che m’era più facile prima e, infatti, ancora annovero davanti alla capanna una «band» di suonatori di Jazz, un duo di scrivani somiglianti a Totò e Peppino e uno zampognaro tale e quale al mio dolce amico Massimo Troisi. Oggi, aggredito dalla difficoltà della situazione politica ed economica sento la necessità massima di assumere in pianta stabile il pastore dei pastori: «u’ sckandat». Letteralmente, nel dialetto nostro, sta per «lo spaventato». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta, orante, con gli occhi sbarrati, le braccia spalancate e la bocca semichiusa in un fonema inintelligibile, se non dai puri di cuore che sembra esprimere l’atterrita gioia della salvazione annunciata. È povero, non porta niente, né caciotte, né agnellini, né vino, né uova, né, tanto meno stoffe preziose o spezie: «u’ sckandat» porta solo il suo stupore di fede e la sua letizia di speranza.

Il pastore con le braccia spalancate, lo sguardo al cielo, ben piantato sul limitare della casa di Gesù Bambino sembra voler essere il segno di congiunzione tra queste umanità e sembra essersi guardato intorno prima e durante l’arrivo alla Betlemme di carta, legno, colla e terracotta. In questo fatidico villaggio simbolo porta il racconto delle nostre striminzite cronache cui noi vogliamo ostinatamente concedere la superbia della storia magniloquente illudendoci che Storia possano diventare. La reazione è tutta lì, in quelle braccia spalancate, in quell’espressione del volto: non è estasi, è sbigottimento.

«U sckandat» nei nostri dialetti vuol dire, si, «lo spaventato», ma con alcune sfumature combinate che vogliono anche significare indignato, offeso, incredulo. I pastori, tutt’intorno, devono esserlo altrettanto. Perfino il dormiente si è svegliato e ha detto che anche il mondo ha bisogno di svegliarsi. Detto da lui! Solo le pecore se ne infischiano e continuano a brucare l’erba finta. Un fioccone d’ovatta copre il cartiglio dell’angelo e le parole «buona volontà» non si leggono più.

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