Al Catechismo m’insegnarono, con petulante tenerezza, i Dieci Comandamenti. A parte il perentorio e indiscutibile principio iniziale di autoaffermazione fomite di timore reverenziale, quasi tutto il resto è una sequela sacrosanta di proibizioni. Il buon Cristiano vi si dovrebbe attenere senza «se» e senza «ma». Ai bambini d’un tempo, le tavole ricevute da Mosè incutevano, con le austere ammonizioni, anche il terrore di pene immancabili in caso di infrazioni: prima tra queste la blanda e terrena corvée della Confessione. Il decalogo, espressione, di una Teodicea di cui facevamo fatica a cogliere il senso profondo, pur nella semplificazione della catechesi cattolica, erano tutti molto chiari ad eccezione di uno.
Finché si imponeva di «Non nominare il nome di Dio invano» o di «Onorare il padre e la madre» non potevamo che concordare e ratificare affettuosamente, lo stesso valeva per quel «Ricordati di santificare le feste» graditissimo agli scavezzacolli che eravamo che sapevamo come ubbidire alla raccomandazione. E chi poteva dissentire dal «Non rubare», «Non uccidere» o «Non dire falsa testimonianza»? Le cose ci facevano orrore ed erano già comprese nel minimo canone etico di ragazzini innocenti, «Parvuli» come ci piaceva crederci, in corsa verso il Maestro che nelle figurine del Parroco ci accoglieva a braccia aperte. Quanto a «Desiderare la roba d’altri», poteva anche accadere, ma amichevolmente, e la vertenza si esauriva nel condividere la gioia di un giocattolo. Le cose si complicavano con quel «Non desiderare la donna d’altri». Privi, come eravamo, di mogli, fidanzate o concubine, la proibizione ci lasciava indifferenti: preferimmo rimandare il corruccio ad età più consone a certi pruriginosi verbi ottativi.
Il vero problema si apriva tutte le volte che dovevamo impegnarci a «Non fornicare». Cosa diavolo voleva dire? (Qui il diavolo c’entrava proprio). Pudicizia magistrale, ritrosie di discepoli e vaghezza pretesca producevano perifrasi protocollari e generiche. Ai più piccoli doveva bastare: non dovevano fornicare e basta, anche se non sapevano cosa fosse. Ai più grandicelli che cominciavano a poter capire cosa perdessero rispettando il Comandamento, veniva ammannita qualche vaga ingiunzione a dormire con le mani sulle coperte, a non toccarsi, ficcando le dita nel buco della tasca, a far pipì rapidamente e senza inutili perlustrazioni idrauliche e, alle bambine, a non rispettare l’igiene troppo accuratamente e con troppa insistenza.
Fornicare. Chi non ha pensato che c’entrassero le formiche, le innocenti formiche? Almeno fino alla prima sbirciatina al Vocabolario, libro più laico ed esplicito del manuale di Catechismo. Più tardi qualche estensore furbo, ma sempre bacchettone, coniò quel «Non commettere atti impuri» che tentò di alimentare la sessuofobia degli anni della nostra adolescenza. Chi scrive, ma, ne sono certo, anche molti tra chi legge, quando capì le parole non smise di disubbidire a quel Comandamento e ancora non smette. Grazie a Dio.
Ma, a pensarci, noi non c’entriamo e non c’entrammo, non troppo almeno, con una pratica sessuale particolare, quella spiegata dall’etimologia e dispensata dalle prostitute romane al riparo nei «fornici», quegli anfratti a forma d’arco, del Colosseo, come vuole la storia papalina. Le sventurate avevano solo l’obbligo di impedire la vista dei curiosi insolventi con una tenda gialla. Il giallo divenne, così raccontano, il colore distintivo della corporazione e il fornice, l’innocente parola architettonica, offrì il destro semantico per il termine che indica le prestazioni erotiche a pagamento.
Architettura, edilizia, urbanistica e luoghi pubblici furono, dunque, connessi, loro malgrado, al mestieraccio. Succede pure oggi, a pensarci, anche se l’edilizia utilizzata è lussuosa, meno stilizzata: alberghi, residenze ufficiali, ville, finti stabilimenti clinico-ginnici e fintissimi centri benessere. Quanto di più lontano dalla monumentale austerità del Colosseo. In questa devastazione brutale della vita pubblica, non c’è gente che rubi, che desideri la roba d’altri, che uccida l’innocenza, che porti bestemmia alla giustizia umana e divina corrompendo e facendosi corrompere, che non amalgami tutto con il ludibrio del meretricio. E questa gente, definita «per bene» in discutibili scale di disvalori nel primo mondo, quello ricco a spese del secondo e terzo, spesso, ha dato la stura più recente al registro delle fornicazioni contabilizzate e contabilizzabili come pagamento di favori e di lavori in corso di «cene eleganti».
La gran parte delle magagne facilmente passano in prescrizione. Ci pregiamo di ricordare che tale istituto non cancella il reato commesso, ma lo considera non più perseguibile, archiviato dalla polvere del tempo nei suoi fornici, pur continuando a indicare i delinquenti come tali, anche se sgusciano via dai rotti delle cuffie delle procedure. Ma se aveva ragione il Catechismo, davanti al tribunale di Dio, al peccato non esiste la prescrizione.