BARI - Ritorno al passato. Tutte le chiamano «ex» ma sono ancora come simbolo di un’antipolitica che non ha prodotto i risultati attesi. L’Anci boccia il progetto di (nuova) riforma delle Province e parla di aumento dei costi; per la Corte dei Conti la vera spesa non è quella del voto («di non di particolare significatività») ma la riorganizzazione complessiva di una riforma ancora incompleta che è causa di perdita di gettito e di crisi finanziaria (un danno quantificato già in 167 milioni negli ultimi tre anni). Il ritorno all’elezione diretta del Presidente provinciale del Consiglio provinciale è in queste ore al centro del dibattito parlamentare (6 i ddl in corso di esame agli Affari Costituzionali). L’unico dato certo è che la riorganizzazione delle Province in realtà è rimasta applicata parzialmente perché, tranne le competenze dei centri per l’impiego (appesi in un limbo concorrente fra Stato e Regioni) sono rimaste quelle in campo ambientale, manutenzione delle strade, edilizia scolastica, pianificazione dei trasporti. Con la differenza che i soldi si sono ridotti, non si capisce chi deve badare alle strade, il personale è stato falcidiato da esodi, pensionamenti o ricollocazioni. E a farne le spese sono stati i cittadini in termini di di accesso ai servizi «sopravvissuti».
I TAGLI E LA RESURREZIONE DELLO STIPENDIO - In tutto questo, al di là delle valutazioni politiche orientate a ripristinare una rappresentanza dei cittadini in seno a tali organismi, va subito detto che i costi delle poltrone, conti alla mano, poco prima dell’entrata in vigore della riforma Delrio, sfioravano gli 80 milioni di euro. Prima di Delrio, sia con il Governo Berlusconi (nel 2011) che con quello guidato da Monti (2012, spending review) c'era stata una riduzione dei costi culminata con il taglio del 20% delle poltrone delle province. La riforma è diventata operativa dal 1° gennaio 2015 e le giunte esistenti hanno continuato ad operare per 9 mesi, accompagnando l’avvio del nuovo sistema. Nel frattempo, come spesso accade in Italia, con una si toglie e con l'altra si da: così, una «manina», nel 2019, ha reintrodotto (a partire dal 2020) lo «stipendio» per il Presidente della Provincia prevedendo una indennità «pari a quella del sindaco del comune capoluogo, in ogni caso non cumulabile con quella percepita in qualità di sindaco». Insomma, un sindaco di un comune «piccolo», se guiderà la Provincia, avrà diritto alla differenza tra l’indennità del sindaco capoluogo e quella da primo cittadino del Comune da lui amministrato.
LA RIFORMA E L'ELEZIONE FATTA IN CASA - Cosa prevedeva la riforma Delrio? Lo svuotamento delle funzioni amministrative in capo alle province, divenute enti di area vasta, ed il conseguente trasferimento alle regioni; per quanto riguarda la rappresentanza, la trasformazione delle province in enti locali territoriali di secondo grado, cioè con elezioni da parte dei consiglieri comunali e dei sindaci dei comuni ricadenti nel territorio della provincia o della Città metropolitana. Corollario di tale processo, infatti, doveva essere la riforma costituzionale che prevedeva l’abolizione definitiva dell’ente provincia: ma è naufragata dopo l’esito negativo del referendum del dicembre 2016 che ha portato al «congedo» dell’ex premier Renzi.
Prima, l'elezione del Presidente della Provincia era simile a quella del sindaco: vinceva il candidato che aveva raggiunto la maggioranza assoluta dei voti (in caso contrario si andava al ballottaggio) mentre i consiglieri erano eletti sulla base di collegi uninominali e, a differenza del sistema elettorale comunale, non era ammesso il voto disgiunto. Al gruppo o ai gruppi di candidati collegati al Presidente della provincia risultato eletto era attribuito il cosiddetto premio di maggioranza on modo tale da aggiudicarsi il 60 per cento dei seggi.
La riforma del 2014 ha cancellato il voto popolare e ha introdotto quindi la elezione di secondo grado: sono elettori (ed eleggibili) sindaci e consiglieri dei comuni che fanno parte del territorio provinciale. Per le città metropolitane, il presidente coincide con il sindaco del comune metropolitano, mentre per il consiglio provinciale l’elettorato attivo e passivo coincidono (sindaci e consiglieri comunali). Il meccanismo di voto prevede otto fasce demografiche in cui sono suddivisi i comuni, per cui ogni voto ha un peso «autonomo». Pur non prevedendo la giunta, la riforma Delrio dava la possibilità al Presidente di affidare deleghe (incarichi) ai consiglieri su particolari temi.
IL RITORNO DELLE GIUNTE - Uno dei ddl in fase di esame agli Affari costituzionali prevede la reintroduzione della giunta (fino a 4 assessori) e le relativa indennità nella misura non superiore al 50% spettante al Presidente (65% in caso di vicesindaco o vicepresidente). A livello nazionale, dati alla mano, si tratta di rimettere in circolazione centinaia di poltrone di rappresentanza. Per la Puglia tale «patrimonio», secondo le attuali composizioni dei consigli provinciali, potrebbe valere 81 scranni oltre alle eventuali possibilità di ruoli negli esecutivi provinciali. Attualmente sia la Città metropolitana che le altre 5 province pugliesi sono guidate dal centrosinistra. In Italia, tra le 76 province censite (al netto delle aree metropolitane) poco più della metà sono in mano al centrodestra (36), le altre divise tra il centrosinistra (34), Italia Viva (3) e Movimento 5 Stelle (1).
LA CORTE DEI CONTI - I magistrati contabili, cui spetta il «referto» sulla gestione finanziaria degli enti locali, pur prendendo atto di un avvio di riqualificazione delle Province con la destinazione di fondi per far fronte alle materie di competenza, ritengono importante la riorganizzazione complessiva dei livelli di governo territoriale. Secondo l'Anci, il modello attuale costituirebbe un vantaggio, tuttavia, il punto sui conti da parte della Corte dei Conti, direbbero altro proprio per l'attuale situazione di ambiguità delle Province. Nell’ultimo quinquennio, le Sezioni regionali di controllo hanno analizzato le misure di risanamento di 16 amministrazioni provinciali e di una Città metropolitana (Catania): è emerso che due procedure di riequilibrio sono approdate al dissesto, in due casi sono state chiuse anticipatamente, mentre la restante parte dei piani è attualmente in corso di realizzazione. Tra le diverse cause della crisi finanziaria, l’interruzione della riforma costituzionale, quella naufragata con il fallimento del referendum del 2016.
Un anno fa, con il «dl 50» (art. 41) sono stati destinati a Province e Città metropolitane fondi straordinari per il triennio in corso (fino al 2024), connessi connessi alle perdite di gettito, tra cui l’IPT per le auto ma trend delle vendite si è ridotto sensibilmente. Un provvedimento che, a quanto pare, avrebbe scarsa efficacia se non per Roma destinatario di 60 milioni annui. Per le altre, province, a fronte di un contributo straordinario loro concesso è di appena 6 milioni, è attesa una perdita nel triennio di quasi 167 milioni di euro. Era meglio quando si stava peggio?