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Quelle storie sepolte nella terra di Capitanata

 
Raffaele Nigro

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Raffaele Nigro

Quelle storie sepolte nella terra di Capitanata

Le poesie di Francesco Bellino sulla vita e sulla morte

Mercoledì 01 Febbraio 2023, 11:31

La raccolta di esordio, “Lembi di sodaglia”, con cui Francesco Bellino salutava il mondo della letteratura con una aperta adesione a una poesia lirica e dialogica vicina al frammento greco e alla scrittura dei grandi meridionali, Bodini, Scotellaro, Sinisgalli, Gatto, si ripropone oggi a mezzo secolo di distanza nella raccolta All’ombra della pianura. Epitaffi ed elegie daunie, edito da Delta 3 di Grottaminarda. Il mondo contadino della Capitanata era allora al centro della sua ispirazione, insieme agli affetti familiari e all’elogio della semplicità. E tale si ripresenta in questa raccolta, dove fanno irruzione nomi e temi di quella filosofia dell’umano che Bellino ha perseguito nel suo sistema di pensiero, accostandosi a Gadamer, a padre Manno, ai grandi temi posti dalla filosofia dell’umanesimo integrale, Maritain, Galimberti, Woytjla.

Il soggetto di questi versi è la morte, la consunzione dei corpi, insieme alla pietà per quanti hanno trovato sepoltura nella piana della Daunia, ovvero le terre dei cinque reali siti, il mondo di Orta Nova che Francesco ha conosciuto negli anni dell’infanzia e della giovinezza, prima che partisse per gli studi universitari e per il mondo che lo ha accolto e laureato filosofo della bioetica e della formazione, e poeta contrapposto a un tempo di esasperata ricerca dell’economia come fondamento e di scarsa finezza nei rapporti umani. Con un interrogativo retorico che chiama alla memoria l’apertura di “Spoon River antology” e la reinterpretazione di De Andrè, si presenta la raccolta di versi in cui ci addentriamo, così densa di pathos e di malinconia. Con un viaggio inverso, dalla sommità della collina dov’erano sepolti i morti di Lee Masters alla pianura, infinita come il volto del presente continuo qual è la vita. Dove sono finiti i grandi che hanno abitato e attraversato la pianura? Dove sono Diomede e Dauno, fondatori di tanti villaggi, dove i cortei di Federico II di Svevia, le torme di crociati che scendevano a Brindisi per imbarcarsi alla volta di Gerusalemme? E dove hanno concluso la loro vicenda esistenziale le tante figure più vicine a noi nel tempo, Pietro Giannone, Umberto Giordano, Giuseppe Di Vittorio? E con loro creature della cronaca quotidiana, sparite come grani di sabbia nel vento dei secoli, montagne di ossa che hanno costruito gli attimi fuggevoli e anonimi dei giorni e delle notti, contadini mamme prostitute bidelli farmacisti sindaci.

«Quanta erba è cresciuta sotto i cipressi/ La tortora è morta/ di crepacuore,/ l’usignolo ha perso/ la sua compagna/ e il vento piega le pratoline».

Tutti giacciono sotto le zolle e solo le anime non sono state toccate dalla morte, ma volate in cielo si presenteranno a noi sotto altre forme.

Il racconto elegiaco si presenta al lettore ora in terza persona ora in prima, a seconda che racconti il poeta o che gli si sostituisca qualcuna delle tante creature che «in terra e in mar semina morte» direbbe Foscolo. La voce del poeta, prestata talora alle figure evocate, come vox clamans in deserto, nel deserto della vita, si consuma a passi lenti nella pianura. Dove vita e pianura sono tutt’uno. E dove le generazioni si consumano non sempre lasciando traccia di sé.

Ecco allora Federico II che ricorda la predizione secondo cui sarebbe morto in località segnata da un fiore, ovvero a Castelfiorentino; Alfonso I d’Aragona venuto a instaurare la dogana delle pecore a San Severo. È la grande storia, quella alta che domina la vita di re e principi.

E poi la cronaca quotidiana, la vita che scivola ininterrotta e tocca la sorte di Maria Grazia, bracciante agricola, di Marietta la visionaria, quella dei contadini senza terra che imbracciano armi contro i potenti, senza tetto sepolti negli ossari comuni. Tanti, tutti, che «dormono dormono sulla pianura».

E insieme a costoro i popoli in transumanza, gli eroi sbarcati dal Peloponneso, la soldataglia venuta dalla Spagna o dalla Francia. Tutti tacciono sotto terra e solo canta il vento della pianura. Basta appoggiare l’orecchio al suolo, scriveva Nicola Sole nell’”Ode allo Jonio” o scendere nelle grotte di Siponto, secondo Cristanziano Serricchio o sulla pelle delle stele daunie, per riavere sentore di mondi perduti, di vite consumate tra Salapia Herdonia Arpi.

In un richiamo diretto a Sinisgalli il poeta dice: «Tornerò tra 10 trilioni di anni tra cherubini e serafini». Non senza aver spiegato che è stato «migrante per tutta la vita». Anche lui, ridotto in polvere, tornerà a giacere nel fango della pianura, perché il senso della vita sta in ciò che la pianura sa operare, la trasformazione delle ossa in concime e poi in erbe e fiori.

I prestiti di Bellino sono molteplici, oltre ai poeti che abbiamo citato, tornano nei suoi versi Alfeo di Mitilene, Baudelaire, Foscolo, i grandi del decadentismo europeo e insieme, i canti religiosi del Mese mariano.

Perché è costante nella poesia di Bellino, la religiosità, la fede in Dio, nella Vergine e in Cristo. Una fede che vacilla, perché si scontra con una consapevolezza tragica e razionale, disseminata tra i versi, un tremor pulvinis et finis, un potente richiamo alla tragicità dell’esistenza e della morte, ribadito in esergo nella raccolta, come a chiusura del pianto e della vita: «Qui termina il mio cammino/non c’è traccia né impronta, tutto è polvere».

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