Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi, e poi ritornano... magari in Puglia e in Basilicata. Nulla meglio della canzone di Venditti riassume l’immarcescibile attrazione della politica nazionale per l’«atomo». Evaporati come i ghiacciai alpini i due referendum del 1987 e 2011 e le sciagure di Chernobyl e Fukushima, la voglia di centrali nucleari è tornata alla ribalta, argomento di campagna elettorale - pur con tutti i distinguo - del Centrodestra di Giorgia Meloni (FdI), Matteo Salvini (Lega), Silvio Berlusconi (FI), e di Carlo Calenda (Azione). Un fronte che, sulla carta, in Parlamento potrebbe però raggiungere la «massa critica».
Puglia e Basilicata sono tasselli nucleari concreti e potenziali da tempo immemore. Sono realtà il deposito super-illegale di Statte, che ancora è pieno di fusti radiotossici, così come ciò che resta dell’Itrec-Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile. A occuparsi delle bonifiche dovrebbe essere la Sogin-Società Gestione Impianti Nucleari. Però questa SpA di Stato (al 100% del ministero dell’Economia e delle Finanze), nata nel ‘99 e foraggiata coi soldi dei cittadini attraverso la bolletta elettrica, è nei guai fino al collo. Spesso accusata di inefficienza (le bonifiche che dovevano essere finite nel 2019, sono slittate al 2036) ed esosità (c’è chi calcola spese al ritmo di 2 miliardi di euro l’anno), oggi si ritrova con la Finanza che spulcia i suoi appalti e, dal 22 giugno, è stata pure commissariata...