Lunedì 24 Novembre 2025 | 06:51

L’uomo e il fuoco: un rapporto controverso e nel tempo complicato

L’uomo e il fuoco: un rapporto controverso e nel tempo complicato

 
dorella cianci

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dorella cianci

La caduta di Fetonte, di Gustave Moreau

La caduta di Fetonte, di Gustave Moreau

Quante altre volte l’umanità ha acceso nuovi “carri di fuoco” nella pretesa di saperli gestire? Quanta arroganza è confluita nelle politiche ambientali e nelle scelte di progresso fatte di ricette inquinanti a base di carbone e petrolio?

Lunedì 24 Novembre 2025, 06:22

È grande il fraintendimento fra l’arroganza e il coraggio; il discrimine, probabilmente, risiede, soprattutto, nella dimensione etica, in quella consapevolezza di agire senza essere esclusivamente il centro del nostro agire. Con questa premessa, possiamo parlare della complessa questione climatica, di emergenzialità dovuta al surriscaldamento e di scelte, da un lato coraggiose, come quelle che chiediamo ai governi, e dall’altro non arroganti. In tal senso, mentre è terminata la Conferenza sul Clima, svoltasi a Belém, alle soglie della foreste amazzonica, vogliamo prendere spunto da alcune suggestioni di un bel saggio di Maurizio Bettini, Arrogante umanità. Miti classici e riscaldamento globale. Come si ricollega l’arroganza umana al climate warming? Come suggerisce Bettini, in questo caso i miti greci e latini ci vengono in soccorso e dialogano col nostro tempo. Esaminiamo il mito di Fetonte, fra i versi superstiti della tragedia euripidea, e la versione di Ovidio. Quando Fetonte, figlio di Helios, chiese di guidare il carro solare, non lo fece davvero per superbia, ma per un reale bisogno di riconoscimento: voleva che la Terra sapesse chi era suo padre, voleva far conoscere le sue origini eliocentriche. Eppure da questo bisogno condivisibile, ebbe origine un atto di notevole arroganza verso la Terra stessa. Fetonte non sapeva davvero domare i cavalli di fuoco: la corsa si fece disordinata, la volta celeste tremò e la Terra fu arsa fino alle radici. Le conseguenze furono nefaste, proprio come quelle della vicenda di Icaro (e, peraltro, i due miti si somigliano moltissimo, tanto da sembrare a tratti sovrapponibili). Che cosa accade dalla pur comprensibile esigenza del figlio del Sole, che originariamente sembrava solo una sfida con stesso e con i suoi antenati?  I fiumi si prosciugarono, le foreste si piegarono e altri  uomini biasimarono il cielo, poiché era in pericolo la loro stessa sopravvivenza. Zeus — o Giove per dirla con la cultura latina — scagliò il fulmine che pose fine alla sua corsa, ma la ferita rimase per sempre aperta nel mondo: una lunga scia di cenere, che ancora racconta la follia dell’uomo nel desiderio di padroneggiare il Sole e di domare la natura. E da allora abbiamo imparato poco.

Quante altre volte l’umanità ha acceso nuovi “carri di fuoco” nella pretesa di saperli gestire? Quanta arroganza è confluita nelle politiche ambientali e nelle scelte di progresso fatte di ricette inquinanti a base di carbone e petrolio? Sono diverse le versioni di questo mito, ma tutte presuppongono la catastrofe e lasciano un mondo sconvolto dal caos. Il mito ci risulta decisamente familiare non perché sia noto a tutti (come invece potrebbe essere la vicenda di Edipo), ma perché questo mito trova la sua familiarità nel contesto attuale, radicandosi a quella scellerata arroganza di pretendere di controllare la natura. Da Fetonte in poi continuiamo a muoverci sul pianeta con l’atteggiamento di chi si autoconvince che le risorse naturali siano inesauribili e, come Fetonte, ci avviciniamo alla superfice fragile della Terra, come se questa non risentisse della nostra presenza invadente. Condividendo la riflessione di Bettini, il quale saggiamente non si lascia intrappolare dalle riflessioni identitarie, dobbiamo, però, ammettere che i popoli di tradizione occidentale, fin troppo spesso, fingono di disporre, a proprio piacimento, della Terra mater, guardandola più come risorsa da massimizzare e non come “altro” da rispettare.

Non mancano le contraddizioni in Occidente e non mancano in Oriente, ma le culture orientali hanno custodito una maggiore consapevolezza rispetto agli elementi naturali. Guardiamo comparativamente a un mito lontano. In Giappone, la dea del Sole, secondo il mito, era stata offesa dalla violenza del fratello e si nascose in una caverna: da quel momento il mondo precipitò nelle tenebre. Gli dèi non usarono la forza per riportarla fuori: danzarono, risero, celebrarono la bellezza della vita davanti al suo rifugio. La dea, dunque, attratta da quella gioia, si affacciò, ridando all’umanità la luce.  A quella leggenda possiamo agganciare l’idea che la natura non si conquista, non si “dirige” né si manovra, non si domina con arroganza: si persuade. Il taoismo e il buddhismo, alla base di molti miti orientali, insegnano ancora oggi che la via della pace interiore passa (anche) attraverso l’armonia con la natura. E l’Occidente che cosa ha dimenticato, incastrandosi nell’errore di Icaro o di Fetonte? Ha dimenticato, a oggi, il coinvolgimento non arrogante della “casa comune”, ha dimenticato il modo di stare al mondo di Francesco d’Assisi. Questo non vuol dire lasciarsi prendere dallo spirito “animistico”, ma può voler insinuare (oltre le diverse conferenze per il clima, dove sempre più si svelano le maschere del potere politico ed economico) l’esigenza di tornare a sacralizzare terre, acque, alberi, così come altri elementi naturali, senza farsi assorbire dalla hybris.

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