Sono nate insieme e insieme stanno invecchiando, in un destino ancora incerto ma condiviso. Stiamo parlando della città e della democrazia, messe accanto dalla storia in un intreccio costante, sin dai primi giorni della «polis», quando veniva alla luce una comunità politica dall’utero del pensiero democratico. Eppure oggi, mentre ci guardiamo intorno, non le vediamo entrambe in buona salute, sembrano attraversare insieme una crisi profonda che non è solo estetica, anzi… Forse da un punto di vista estetico il ragionamento può volgere a esiti incoraggianti, ma da un punto di vista politico?
Guardiamo alle metropoli globali, da Roma a Shanghai, da New York a Milano: esistono ancora progetti condivisi oltre i flussi finanziari e tecnologici? Esiste ancora un cittadino non musealizzato dal turismo (come nel caso di Roma) o un cittadino non standardizzato in consumatore, come nel caso di Milano o Londra? Pensiamo alle città che ci sono state consegnate dalla letteratura, pensiamo a Londra nelle contraddizioni messe in luce, un tempo, da Dickens, quando intravedeva, in quei grigi quartieri, l’inferno sociale accanto a un organismo vivente; pensiamo al capitalismo corrotto della Parigi di Zola, alla deriva di Kafka, che vede in Praga un annullamento dell’individuo dietro un potere anonimo, pensiamo a Dublino con Joyce, che è il controcanto della crisi personale, arrivando alla città di Torino, che per Marcovaldo di Calvino era il desiderio di rintracciare l’umanità perduta dietro l’industrializzazione.
Questo discorso letterario, però, sulla città in rapporto alla democrazia ha avuto, nel secondo Novecento, un’accelerazione grazie a Pasolini, che seppe intravedere in Roma la profonda trasformazione omologante, in un solco che arriva fino a Walter Siti, che ha scorto le difficoltà di una periferia italiana incapace di dare a se stessa il senso collettivo, che aveva nei secoli passati, diventando l’altra faccia (brutta) della periferia americana, immersa nella disgregazione dell’iperconnessione, che omologa centro e periferia in un solo calderone di virtualità. Periferia e centro, stando anche alla narrazione di Don De Lillo e Jonathan Franzen sono un aspetto unico di un solo psedocentro, che è la tecnologia alienante. In questo orizzonte, ci viene in mente il saggio di Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, in cui si delineava, con una certa chiarezza, il profilo del cittadino moderno, sommerso di stimoli e indifferente a tutto, persino a quelle che papa Francesco ha poi definito «periferie esistenziali». Molto interessante anche un altro saggio, in libreria in queste settimane, Filosofia della città di Franco Riva, pubblicato dall’editore Castelvecchi, in cui le città, se da un lato possono ancora essere luogo di narrazione e incontro, dall’altro divengono, in maniera spietata, una sorta di feticcio della democrazia. Un piccolo scritto del filosofo Massimo Cacciari, intitolato proprio Le città, ci ricorda che esse sono astrazioni. Non esiste, dunque, per Cacciari, il concetto di città. È solo il risultato di organizzazioni concettuali, politiche, sociali, dentro diverse culture civili, sociali, religiose, quindi economiche-produttive. In forme “localizzate” in siti ottimali, diversi l’uno dagli altri, secondo condizioni spaziali adeguatamente conformate. Le città sono scandite dallo spazio-tempo da sempre, con una inversione del binomio, mettendo in crisi lo stesso concetto di storia urbana.
Ed è questo il tempo della crisi dell’invenzione delle città come crisi della cultura globale, come manifestazione dell’arroganza individuale, che pretende di subordinare la vita dei quartieri ai flussi economici globali, come ha rilevato, nel 2012, David Harvey, nel saggio Rebel city o Saskia Sassen nel concetto di «global city», idea che azzererebbe il concetto pedagogico di «città educante», trasformando gli spazi urbani in un groviglio di potere, disuguaglianze e solitudini.
Che ne è stato di quel concetto profondo che Henry Lefebvre avrebbe chiamato «diritto alla città»? Che ne è stato di un ecosistema accogliente che avvicinava le genti, senza alimentarne i conflitti e le marginalità? L’oggi fatica a creare «comunità» e la città diventa, per usare un’espressione di Jacques Rancière, una sorta di «dispositivo di polizia», che non consente più l’esercizio della politica, ma autorizza solo meccanismi procedurali, che rendono sgradevoli anche quelle piccole cittadine del Sud Italia, un tempo tanto amate, che si azzerano dentro monopattini, biciclette elettriche e scarsi spazi dove passeggiare sicuri. Chi si salverà? Forse i borghi. Maldel’stam scriveva «Pietroburgo, io non voglio ancora morire»! Immaginiamo oggi il grido opposto, immaginiamo le città che gridano ai loro abitanti: «io non voglio ancora morire». E per non morire non basta la «biopolitica» di Foucalt, perché anche lì primeggia il potere; la rinascita, invece, passerebbe per il dialogo, per la parola, per quelli che Habermas definisce gli spazi comunicativi che non creano