Ma sì, parliamo un po’ di cinema, intendendo con ciò un parlar d’altro: al riparo cioè da guerre che si svolgono perennemente altrove, come un paio di quelle odierne che tanto infiammano; quindi sullo schermo che è un altrove vantaggioso poiché immaginario e immateriale. Francesco Casetti lo definisce appunto un sistema “proiettivo-protettivo”: proietta nel mondo chi assiste tra un sospiro, un moto d’indignazione, una risata o di apprensione, fa lo stesso; purché questo pubblico pagante e appagato se ne stia al sicuro dentro la sala o alla giusta distanza di sicurezza, al chiuso dell’esperienza filmica o all’aperto della chiusura mentale dissimulata da apertura o pragmatismo geopolitico.
Parlando di cinema, o meglio “ri-parlando” di cinema sul nostro inserto culturale Icaro, con diretto riferimento al mito greco che – per dirla con Stanley Kubrick – forse aveva soltanto bisogno di ali più solide, non certo di cera, non resta che “ri-pararsi” o “ri-parare” nel cinema: in materia di guerra civile negli Stati Uniti d’America come teatro di tutte le guerre spettacolari, incivili e altamente tecnologiche pregresse, presenti e imminenti a tempo indeterminato, non si è fatto in tempo a chiudere un anno fa con Civil War di Alex Garland, che l’estate ha portato sconsiglio con una sorta di sequel, Warfare – Tempo di guerra, questa volta condiviso da Garland dietro la macchina da presa con Ray Mendoza.
Fin qui i dati, ma c’è di più: il titolo dell’incursione mediorientale del secondo film è interessante poiché significativo, dal momento che a cinema o in televisione, come corollario tragicomico della realtà, è sempre “tempo di guerra” in perfetta armonia con un “benessere” tecnocratico che è piuttosto un “ben-avere”, quindi un “welfare” organizzato che costituisce l’altra faccia della medaglia della guerra permanente e necessaria, quale effetto collaterale della tecnica dominante e impersonale, oramai metafisica. Martin Heidegger, peraltro poi interpellato per l’agghiacciante documentario lirico Notti e nebbie (1956) di Alain Resnais, già ne La questione della tecnica (1954), precisava: «La tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica. Quando cerchiamo l’essenza di un albero non possiamo non accorgerci che ciò che governa ogni albero in quanto albero non è a sua volta un albero che si possa incontrare tra gli alberi come uno di essi».
Abbassando il tiro, ovviamente, e alzando al ribasso lo sguardo sul grande/piccolo schermo, è inevitabile che la questione di questo o quell’albero, questo o quel film, questa o quella guerra, “civile” o propriamente no, comporti un senso di responsabilità, dove l’essenza del problema confligge con un titolo singolo. Se dunque Civil War, spostandosi in Iraq per diventare Warfare, mantiene intatto il concetto di “guerra civile”, qualcosa vorrà pur dire. Ad esempio che già un gioco di coppia tra titoli e significanti intercetta immediatamente il tempo indeterminato e il “ben-essere” di una parte del pianeta tecnicamente in vantaggio sull’altra, o almeno più fortunata in questo frangente.
L’associazione di idee la dice lunga sul perdurare delle guerre civili, da quella storica del Nord America dilacerato nella seconda metà dell’Ottocento all’oggi, dove il fronte esterno si riflette sullo scacchiere internazionale, con epicentri congiunti l’Est e l’Estremo Oriente, senza soluzione di continuità bellica.
Con o senza i film di Garland, specchio scuro o contropartita degli incubi burocratici e infanticidi di La voce di Hind Rajab di Kawthar ibn Haniyya, il “gioco delle parti” si reitera quale tragedia collettiva, patita però da una parte o da innocenti fasce d’età: dall’inerzia della collettività che accetta la meccanica dell’irresponsabilità come ente metafisico a quella parallela o complementare che rende le immagini in movimento, consumate preferibilmente al buio, materia specifica e cinefila di riferimento del fruitore benpensante, quindi impotente e inerte tanto quanto i soccorritori negli uffici lontani dalle macerie di Gaza.
Da un clone all’altro di uno spettro bellico, che il cinema e la televisione per la loro inconsistenza materiale, voyeuristica e fantasmatica riproducono meglio o con maggiore profitto di altri media, si arriva al cuore del problema: perché se di problema si tratta, tra il fare e il non fare o credere di fare mentre si vede e si lascia fare, questo reclama un atteggiamento nuovo e il valore aggiunto da post-spettatori, pronti a scorgerne le attuali dimensioni nella metafora “arborea” che separa la “tecnica” dalla sua “essenza”. Il che, detto nel 1984 con le parole del suo “eretico” allievo, convinto oltremodo della svolta radicale contro il nucleare, Gunther Anders, comporta il “praticare una schizofrenia morale. In quanto moralmente attivi dobbiamo essere più stupidi di quanto siamo in realtà”.
Altrimenti un film vale e l’altro e, in assenza di istanze alte/altre di un linguaggio audiovisivo e attivo all’altezza dei tempi e degli schermi che non dovrebbero fare da semplice “schermo”, ecco che tra un anno o anche meno ci ritroveremo a parlare dell’ennesimo sequel pixellato, in tremenda sintonia dei tappeti rosso-sangue con l’azione indisturbata dei veri droni e delle armi di distruzione di massa che, con l’alibi allertato dell’intelligenza artificiale dietro cui cova la demenza naturale, non richiedono più né mediazione pseudo-umana né media asserviti a mo’ di supporto socio-culturale.