Domenica 05 Ottobre 2025 | 21:55

La società infelice sull’orlo del precipizio

 
Dorella Cianci

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Dorella Cianci

Quando l’«utopia» italiana sognava l’America

America “Una Nazione bagnata di sangue”

Domenica 05 Ottobre 2025, 19:25

La società americana con le sue majorette, i lustrini e gli show, è una delle più infelici al mondo e non lo sa. Ed è dall’infelicità che bisogna partire per raggiungere le radici profonde di un fenomeno antico e attualissimo: la violenza negli USA. La violenza nella società, l’uso delle armi e il linguaggio aggressivo di alcuni movimentismi sono elementi con una strettissima correlazione, come bene emerge anche dal volume appena pubblicato, in Italia, da Mondadori, dal titolo Niente uccide come l’America, del giornalista Wrigth Thompson.

Diceva un celebre filosofo: «Gli uomini che vivono nelle democrazie amano il loro paese nello stesso modo in cui amano sé stessi, e trasferiscono le abitudini della loro vanità privata nella vanità nazionale» e aggiungeva: «Gli abitanti degli Stati Uniti parlano molto del loro amore per la patria; confesso che non mi fido affatto di questo patriottismo ragionato, che si fonda sull’interesse […] Ciò che mantiene un gran numero di cittadini sotto lo stesso governo è assai meno la volontà ragionata di rimanere uniti, che non l’accordo istintivo e in qualche modo involontario che risulta dalla similitudine dei sentimenti e dalla somiglianza delle opinioni».

È questo, quindi, che scriveva Tocqueville e poi, come tutti sanno, tre decenni dopo la sua celebre visita, scoppiò una violentissima guerra civile: l’identificazione visceralmente democratica non bastò a contrastare la violenza disgregante, esaltata a soluzione politica. Una domanda su tutte: non fu sufficiente l’amore per la patria per rinnegare la violenza o forse proprio quel sentimento esasperato è stato ed è una delle cause di così tante storie di violenza negli Stati Uniti, che vanno dal popolo fino ai vertici?

Andiamo dallo scritto Democrazia in America alle ragioni di oggi, che consolidano l’idea della violenza negli Usa: la forte polarizzazione della politica, la retorica incendiaria, che include frasi trumpiane come «riprendiamoci il Paese indietro» e i continui riferimenti agli oppositori politici sotto l’etichetta «nemici dello Stato». Non solo. Mettiamoci ora dentro anche le forti disuguaglianze economiche, irrisolte sotto molte presidenze, le cicatrici lasciate dal famigerato 2008, i gruppi estremisti come l’Alt Right e i Proud Boys, aumentati sotto Trump e pronti a mettersi concretamente in evidenza nelle manifestazioni del 2017, a Charlottsville. Bisogna comunque uscire dal fraintendimento di appiattirsi sull’oggi, perché il trumpismo è figlio di un’America che ha sempre, fin troppo, accettato la violenza come pseudosoluzione delle ingiustizie (vere o presunte tali).

È qui il caso di citare un altro libro, Una nazione bagnata di sangue di Paul Auster, uscito per la collana Frontiere di Einaudi. Si tratta di una riflessione sulla vendita e la distribuzione delle armi all’interno degli Stati Uniti, con considerazioni fatte partendo dall’analisi delle diverse sparatorie di massa intrecciate ad avvenimenti che hanno toccato la vita dell’autore stesso. Esiste tuttavia un piccolo e magistrale scritto, per la rivista Limes, di qualche anno fa, a cura di Fabrizio Maronta, dal titolo De bello americano, che è alla base di questo nostro ragionamento e rimane, a oggi, decisamente una delle migliori analisi nel ripercorrere la lunga storia della violenza politica in America, risalente, secondo l’autore, addirittura a prima della fondazione degli Stati Uniti (come mostra il caso dei disordini elettorali, in Pennsylvania, del 1742). E poi, andando avanti nel tempo, si citano la violenza del Ku Klux Klan e gli anni ’60 e ’70 del Novecento, dove l’aumento della violenza è stato una prerogativa dell’estrema sinistra, che – a suo modo – reclamava i diritti civili e si opponeva alla guerra in Vietnam. Scrive Maronta: «Il Novecento americano vede in parte ampliarsi lo iato tra ideali costituzionali e prassi (anche e soprattutto) interne. Tra quella religione civile in cui si sostanzia il credo nazionale americano e le ingiurie di una realtà economica, sociale e razziale che tale fede tradisce».

Ancora un altro libro, un po’ più vecchio, merita attenzione, infatti nelle conclusioni di American Violence, del 1970, Richard Hofstadter afferma che la riscoperta da parte dell’America della propria violenza è tra i grandi lasciti dei tumultuosi anni Sessanta. Affermazione vera solo in parte e, d’altronde, anche lo storico sottolineava che «in tale violenza non c’è niente di nuovo, a parte la nostra improvvisa, rinnovata consapevolezza».

Gli Usa sembrano essere un Paese fortemente innamorato di se stesso, che tuttavia si lascia trascinare, a seconda degli eventi storici, dalla facile e banale idea di affidare quell’infelicità sociale alla risoluzione violenta, a cui – oggi ancor più – perfino i vertici massimi del governo strizzano l’occhio, dichiarando, come accaduto ai funerali di un attivista estremista, l’odio per i nemici, dove il nemico, diviene, di volta in volta, un esponente dei democratici, un giornalista, un comico,  un omosessuale o un migrante.

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