Avete presente quella valanga di formaggio fuso che cola su un hamburger alto quanto un palazzo? O quella pizza tirata che fa il “filo” come una soap anni ’80? Ecco, non è fame quella che provate: è food porn. E no, non c’entra solo il cibo. C’entra il desiderio, il voyeurismo, l’estetica del piacere portata all’estremo, l’eccesso che strizza l’occhio (senza pudore) al porno, quello vero.
Benvenuti nell’orgia gastronomica dei social, dove il cibo si spoglia per la camera, si fa ammirare, idolatrare, cliccare, ma non si tocca. Perché nell’era degli influencer, il cibo non si mangia: si posta. E se fa venire l’acquolina alla bocca, tanto meglio. La fame, però, è solo virtuale.
Il termine food porn nasce per indicare immagini di pietanze succulente, esasperate, progettate per stimolare i sensi. Ma col tempo è diventato un vero e proprio linguaggio planetario, con cifre da capogiro: solo l’hashtag #foodporn ha superato i 350 milioni di post su Instagram, mentre su TikTok i video con tag #mukbang hanno totalizzato oltre 100 miliardi di visualizzazioni. E indovinate cosa guardiamo di più su YouTube? I video a tema cibo, che nel 2024 rappresentano quasi un quarto dei contenuti più visualizzati. In pratica, ci abbuffiamo con gli occhi.
Pane e salame? Troppo proletario. Meglio un avocado toast con uovo in camicia che scivola come seta, magari tagliato in slow motion, con musica da camera e filtri degni di un film di Guadagnino. Tutto in HD, tutto in posa. Il cibo non è più fatto per essere mangiato, ma per essere guardato. Meglio se in verticale.
C’è qualcosa di erotico, di feticistico, nel modo in cui viene messo in scena. Si punta tutto sull’effetto “gola”: ingrandimenti, primi piani, suoni amplificati, colature lente e lucide. Il corpo umano? Scomparso. Ma evocato ovunque, nel desiderio stesso di consumare – non il cibo, ma l’immagine del cibo. Gli youtuber dei mukbang, ad esempio, si filmano mentre mangiano quantità oscene di noodles, pollo fritto, ostriche o sushi. Non si limitano a mangiare: gemono, succhiano, masticano, sussurrano. Il cibo diventa atto performativo, erotico, spesso grottesco. Non si tratta più di nutrirsi, ma di produrre piacere per lo spettatore. In loop.
E se i social sono il nuovo altare del food porn, la televisione non è da meno. MasterChef, Bake Off, Cucine da incubo: competizioni che trasformano la cucina in un’arena. Il piatto non deve essere solo buono: deve raccontare una storia, commuovere, stupire, essere “instagrammabile”. Si assaggia, si giudica, si piange. Il sapore è solo un dettaglio. Quello che conta è il montaggio.
Il paradosso? Più parliamo di cibo, più ne siamo ossessionati, e meno lo viviamo davvero. Lo fotografiamo, lo giudichiamo, lo commentiamo, lo postiamo. In Italia, solo tra Roma e Milano si registrano ogni giorno migliaia di post a tema food, e nella fascia 18–35 anni si trascorrono in media 40 minuti a settimana su contenuti alimentari solo su TikTok e Instagram. Ma intanto mangiamo male, o troppo, o con sensi di colpa. Il cibo è diventato una nevrosi collettiva: chi lo demonizza, chi lo idolatra, chi lo trasforma in carriera, chi lo usa per ottenere like. Non ci si siede più a tavola: si va in scena.
Così, mentre ci eccitiamo per una carbonara “pornografica” da 30 secondi, dimentichiamo che il cibo – quello vero – ha bisogno di tempo, di mani, di terra, di cultura. Ma soprattutto, di fame vera. Non quella da algoritmo. Fame di vita. La verità è che il food porn stordisce, ma non racconta. Dietro un piatto instagrammato non ci sono quasi mai la fatica del contadino, le mani dell’operaio della filiera alimentare, il problema dello sfruttamento, dell’agroindustria, del cibo spazzatura o del cambiamento climatico. C’è solo l’immagine patinata, addomesticata, cool. Un lusso accessibile solo a chi può permetterselo – e postarlo.
Insomma la pornografia del cibo ci fa godere… ma ci rende ciechi. Ci insegna a desiderare un cibo che spesso non mangiamo, che non ci appartiene, che è scollegato dalla realtà delle nostre tavole e dei nostri territori. E intanto, mentre scattiamo la foto perfetta, dimentichiamo che il cibo è davvero politica, nel senso più profondo e quotidiano del termine. Forse dovremmo ricominciare a guardarlo per quello che è: nutrimento, cultura, territorio. Oppure continuare a goderne con gli occhi e a morire di fame dentro, come in uno di quei ristoranti ultra-stellati dove il piatto è grande e il contenuto è grande… come un francobollo.