L’Occidente che abitiamo ha i capelli bianchi, le rughe e il fiato corto. Ha il corpo piegato dall’emergenza demografica ma la mente acerba di un bambino totalmente incapace di comprendere la complessità dei fenomeni. Un paradosso ambulante che ragiona - o meglio, è spinto a ragionare - secondo la polarizzazione binaria del buono e del cattivo, del brutto e del bello, tutte categorie annaffiate dall’acrimonia propria a chi, impunito, gioca alla guerra del- le fazioni da dietro uno schermo.
L’infantilizzazione del pensiero fa l’amore con la militarizzazione delle coscienze: un combinato disposto micidiale che danza sorridendo sul cadavere di problemi giganteschi. Lo aveva ben capito Edgar Morin rilevando come si abbia la ventura di «vivere un tempo in cui domina un pensiero, lineare e meccanicista, incapace di concepire la complessi- tà». Poco male se si discute di una partita di calcio (dove, per paradosso, le analisi si fanno spesso sottili), tragico se sul tavolo della discussione si materializza quel demone che in greco antico è violenza al maschile (pólemos) ma nel contemporaneo, dove gira al femminile, ammicca più alla fluidità, così à la page, dell’indecifrabile.
La guerra - e a traino pure la pace - è diventata un gioco di specchi, di inganni, di illusioni, di verità contraffatte. Ma, soprattutto, di semplificazioni. Ci viene offerta così, come un giallo scadente, di quelli che si compravano in edicola per poche lire, in cui il colpevole è sempre il maggiordomo che uccide il malcapitato con un colpo di candelabro in un raptus di follia. Per contrappunto o per compensazione, fioriscono le ricostruzioni più improbabili, le interpretazioni più acrobatiche, le pro- vocazioni più inutili (speziate da sgrammaticati parallelismi storici). È la fiera del ridicolo che ha messo in vendita, nei suoi padi- glioni, la narrazione di quanto succede in Ucraina, a Gaza e in qualunque angolo del pianeta in cui detonano guerre classiche o meno classiche, ma non per que- sto meno tragiche, a cominciare da quelle per le risorse, acqua in testa. «Icaro» le ha raccontate tutte nell’insanguinata parabola di un anno in cui le lancette del metafori- co Orologio dell’Apocalisse si sono approssimate più volte alla concre- ta mezzanotte del mondo. E l’ha fatto affidandosi alle analisi lucide di chi sa leggere il divenire delle relazioni storiche, dal direttore di Limes, Lucio Caracciolo, allo storico Franco Cardini, o al racconto dell’o- pera inesausta dei Francescani in Terra Santa o, ancora, alle cronache di chi ha camminato su quei campi impastati di sangue e menzogne come il reporter di guerra Alberto Negri.
Senza mai abbandonarsi a forme di intolleranza indiscriminata (si vedano i tanti articoli dedicati ai giganti della cultura russa), altro segno di infantilismo, e avendo sempre come bussola la lezione fiorita dal recentissimo saggio laterziano di Luciano Canfora La grande guerra del Peloponneso: 447-384 a. C. Merito del filologo barese far riemergere dall’Antico l’attualissi- mo sforzo di individuare «la causa verissima ma nascostissima» di un conflitto che, pure all’epoca, risen- tiva dei gas tossici della propagan- da. Ogni sciagura viene da lontano, non sbuca dal cilindro della Storia il 24 febbraio o il 7 ottobre per in- sondabili velleità criminali, ma ha ragioni antiche, responsabilità dif- fuse che i semplificatori di profes- sione si rifiutano di contemplare. La guerra è complessa, ma pure la pace lo è: ha cause nascostissime anch’essa, però verissime, e necessarie. Spesso perfino contraddittorie. Ma va analizzata con quel medesimo metro non-ideologico che tiene insieme il principio di realtà con l’oggettività dei fatti, quella spesso urticante che sporca le favole patinate e lineari della propaganda di ogni latitudine. «Mai rovinare una bella storia con la verità» ammoni- va un aforisma da più parti attribuito al columnist del Boston Globe, Sam Silverman. Ci spiace, cari lettori, ma il vostro «Icaro» continuerà a farlo. In tempo di guerra e in tempo di pace. L’Occidente bambi- no se ne farà una ragione.