di Giuseppe De Tomaso
C’è chi dice che il delitto Moro (1978) stia all’Italia come il delitto Kennedy (1963) sta all’America. C’è chi dice che il delitto Moro stia all’Italia repubblicana come il delitto Matteotti (1924) sta all’Italia fascio-monarchica. Può essere. Tutti e tre i delitti sopra indicati hanno cambiato il corso della storia. Tutti e tre i delitti presentano zone d’ombra mai illuminate. Tutti e tre i delitti costituiscono i misteri più indecifrabili dell’ultimo secolo. Tutti e tre i delitti non hanno mandanti identificati per nome e cognome. Gli indiziati dell’uccisione di Dallas vanno dai boss mafiosi ai capi della rivoluzione cubana, dalla nomenklatura del Cremlino agli ultrà dei servizi segreti Usa. I sospettati dell’agguato mortale al deputato socialista vanno dal Duce alla monarchia (tesi quest’ultima della famiglia Matteotti), dai fascisti più irriducibili ai trafficanti di petrolio smascherati dalla vittima designata.
Ecco. I complici sospettati della strage di via Fani e del successivo tragico epilogo in via Caetani sono ancora più numerosi, tanto che ad abbozzarne l’elenco si rischierebbe di dimenticarne qualcuno. Si può solo dire che la morte di Aldo Moro (1916-1978) faceva comodo pressoché a tutti, dentro e fuori l’Italia. Faceva comodo alle superpotenze internazionali, ciascuna delle quali considerava lo statista italiano in quota al nemico. Faceva comodo alle minipotenze nazionali, spaventate dal grado di autonomia e indipendenza del leader democristiano. Faceva comodo a poteri occulti e a poteri palesi, chi per una ragione chi per un altra.
Che la vita di Moro ai vertici delle istituzioni italiane non sarebbe stata una passeggiata, lo s’intuì sùbito, già prima che il Nostro s’insediasse a Palazzo Chigi sul finire del 1963, alla guida del primo vero governo di centrosinistra. L’ala conservatrice della Chiesta gli è ostile in modo plateale. L’arcivescovo di Genova, il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), invia a Moro lettere pesanti e ultimatum raggelanti. Si rischia il corto circuito tra Chiesa cattolica e Democrazia Cristiana. Provvede Giovanni XXIII (1881-1963) a disinnescare la miccia.
Anche il neocancelliere tedesco Ludwig Erhard (1897-1977), artefice del miracolo economico teutonico, non va per il sottile. Alla vigilia dell’accordo di governo con i socialisti in Italia, Erhard chiama Moro e gli sottopone una proposta indecente: la rinuncia al centrosinistra in cambio di un grande programma di industrializzazione del Sud Italia finanziato dalla Germania. Moro ascolta quel do ut des osceno e scambista, e replica senza esitazioni: «Caro Cancelliere, non abbiamo ancora rinunciato ad essere italiani».
Sta tutta qui, in questa frase, la cifra dell’uomo ucciso dalle Brigate Rosse. Solo dalle Brigate Rosse? Le conclusioni delle indagini promosse dall’ultima commissione Moro, sollevano dubbi inquietanti e aprono scenari agghiaccianti. Emerge un puzzle di colpe e responsabilità che pure un giallista del calibro di John Le Carrè avrebbe difficoltà a mettere assieme. Non a caso i primi a intuire la complessità del delitto Moro sono i letterati, i romanzieri, più che gli investigatori e gli inquirenti. Lo scrittore Alberto Moravia (1907-1990), riecheggiando Pier Paolo Pasolini (1922-1975), scrive nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere: «Lui doveva morire». Elias Canetti (1905-1994), in seguito citato spesso da Leonardo Sciascia (1921-1989), aggiunge sentenzioso: «Qualcuno doveva morire al momento giusto».
La verità è che Moro non è difeso da nessuno, o quasi, nelle sue sfide impossibili. L’ondata di gelo nei suoi confronti proviene da lontano. La sinistra-sinistra lo scambia per un incantatore di serpenti e, come tale, lo ritiene più insidioso di un cacciatore acclarato. La destra vede in lui il cavallo di Troia del comunismo, come se Moro non avesse scritto mai nulla sull’incompatibilità tra filosofia collettivistica e pensiero cristiano. I riformisti lo giudicano un conservatore o, nell’accezione più velenosa, il più grande anestesista del secolo. I conservatori lo descrivono arrendevole e troppo incline al compromesso. L’America diffida di lui. L’Unione Sovietica lo segue con sospetto.
La verità è che Moro è Moro. Uno che guida i processi politici, anziché subirli. Uno che guarda all’interesse del Paese, anziché ai calcoli del retrobottega. Uno che, nonostante la flemma mediatica, possiede una determinazione che tutt’al più sconfina nella pazienza (e viceversa). Ma di sicuro non è un pavido. Per informazioni rivolgersi ai protagonisti e agli studiosi dell’esperienza di governo tra Dc e Psi: vi racconteranno di un Moro tutt’altro che pieghevole. Agli alleati socialisti Amintore Fanfani (1908-1999) concede molto di più.
Il Moro più autentico è il Moro studioso, è il Moro delle Lezioni di filosofia del Diritto. Quello è il Moro stratega. Il Moro politico è il Moro realista, che tiene conto della realtà così com’è e non di come si vorrebbe che fosse. Ma il Moro empirista tende sempre ad avvicinarsi, con le dovute accortezze, al Moro teorico.
Moro non è un criptobolscevico, né è un agente segreto al servizio della Casa Bianca o di Sua Maestà Britannica. Moro apre al Pci perché ritiene che in un momento così drammatico, per il Paese, in piena bagarre terroristica e con l’inflazione a due cifre, non ci si può consentire il lusso di una spaccatura lacerante del tessuto sociale. Il suo traguardo, l’obiettivo di Moro, è la democrazia dell’alternanza, non la democrazia dell’inciucio. La Grande Coalizione è l’eccezione, non la regola, in una democrazia. Ma la Grande Coalizione non va confusa con la cultura della resa. E poi, il compromesso è nel Dna di ogni democrazia. Nessuna democrazia può vivere senza compromessi.
Purtroppo, la coincidentia oppositorum, che in questo caso non sarebbe Dio, secondo la concezione filosofica del neoplatonico Nicola Cusano (1401-1464), bensì la convergenza fra gli interessi ostili, ha fatto in modo che la potenza militare delle Brigate Rosse prendesse di mira il più indifeso, il meno colpevole di tutti (Leonardo Sciascia), fra i capi della Prima Repubblica.
Marco Damilano, nel giro - leggete il suo bel libro Un atomo di verità - tra i luoghi di Moro, dimostra che la politica-politica, in Italia, è morta con la fine dello statista di Maglie. Difficile dargli torto. Soprattutto oggi che all’Italia sempre più ingovernabile manca una guida, un faro come Aldo Moro, che sta al Belpaese come Virgilio sta a Dante Alighieri (1265-1321) nel viaggio attraverso due (Inferno e Purgatorio) dei tre regni dell’Oltretomba.