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Benedetto Petrone rivive
o muore nelle «due città»

 
Benedetto Petrone rivive o muore nelle «due città»

Giovedì 23 Novembre 2017, 21:02

di NICOLA SIGNORILE

Al cinema King di Bari quella sera si dava il nuovo film di Liliana Cavani: Al di là del bene e del male. Dove Dominique Sanda incarna Lou Andreas-Salomé, la donna che si staglia ben al di sopra del suo amante impossibile, Friedrich Nietzsche, e con la forza della ribellione manda in frantumi la gabbia di cristallo del pensiero borghese e del mondo dominato dal maschio. Quanta somiglianza con il movimento delle donne che in quei giorni prendeva la scena nelle città rivoltando le abitudini nei partiti e nei sindacati e finanche nella chiesa. Pochi mesi prima esplode nella zona industriale del capoluogo la crisi della Hettemarks, fabbrica tessile che impiega in maggioranza operaie. E sono loro a presidiare giorno e notte la tenda piantata in corso Vittorio Emanuele, sul confine tra Bari vecchia e il borgo murattiano.

Un confine carico di simboli che quel lunedì sera, il 28 novembre di quarant’anni fa, si macchia del sangue di un operaio diciottenne, comunista. Si chiama Benedetto Petrone. Muore con il ventre squarciato da una coltellata, assassinato nell’agguato che gli squadristi del Fronte della Gioventù hanno teso a un gruppo di giovani di sinistra, tra il palazzo del Comune e la Prefettura. I fascisti sono decine, secondo i testimoni che li vendono uscire armati di spranghe e catene dalla federazione del Movimento Sociale Italiano, in via Piccinni. I giovani cercano riparo nella città vecchia, ma Benedetto Petrone rimane indietro e viene circondato dagli aggressori. Va in suo aiuto Franco Intranò, 16 anni, inseparabile amico, ma viene ferito anch’egli. Il processo vedrà la condanna di Giuseppe Piccolo alla pena di 22 anni di carcere mentre gli altri sette imputati – solo per favoreggiamento – avranno pene assai miti. Ha prevalso nella testa dei giudici la tesi del pazzo assassino, che ha deciso e agito da solo. Una tesi che negli ambienti moderati della città cominciò a serpeggiare già nelle settimane successive all’omicidio, non appena superato lo choc della grande manifestazione del 29 - trentamila in piazza - e poi di quella che prese il via al termine del funerale in piazza Chiurlia, vincendo la paura di un città blindata, assediata dalle violenze ingigantite quando non del tutto inventate (la calata degli autonomi!) dalle pagine locali del quotidiano «Il Tempo» e da alcune radio private.

Quarant’anni sono un periodo di tempo sufficientemente lungo per rileggere gli atti del processo per l’omicidio Petrone e quelli del processo parallelo scaturito dalla maxi inchiesta di Nicola Magrone che riconosceva il reato di ricostituzione del partito fascista a carico di dirigenti e militanti del Msi, nella lunga serie di attentati, aggressioni e atti di violenza contro gli studenti, i partiti di sinistra e anche i giornalisti della «Gazzetta». Ha riaperto i fascicoli, in questi mesi, l’avvocato Michele Laforgia giovanissimo testimone di quelle giornate e figlio dell’avvocato Pietro Leonida Laforgia, fra i protagonisti di quei processi. In controluce si possono ormai rivedere le decisioni dei giudici, le strategie dell’accusa, il ruolo dei legali della parte civile. Soprattutto, il peso che ha esercitato sulle deludenti sentenze il clima politico nazionale: il compromesso storico, il terrorismo delle Brigate Rosse e infine l’assassino di Aldo Moro.

Sono stati bollati come gli «Anni di piombo» (è il titolo di un altro film, di Margarethe von Trotta), e sono stati in effetti gli anni Settanta quelli della parabola del terrorismo. Ma sono stati anche anni attraversati da una effervescente, multiforme creatività, anche a Bari dove si aprivano teatri e nascevano compagnie (Il Piccolo, l’Abeliano), si formavano gruppi musicali (Antica e nuova musica, la Compagnia dell’Arco, la Compagnia dei musicanti), gallerie d’arte e centri culturali (Il Fante di Fiori, l’Officina), cineclub (la Filmeria, il Cinestudio). La storia di Benedetto Petrone appartiene a questo movimento.

Quarant’anni costringono anche a riflettere su cosa abbia significato il delitto Petrone per la città e la Puglia. Per chi c’era e per chi è nato dopo e ha sentito il bisogno di sapere se non proprio di esserne parte, in qualche modo. Ci sono state nel corso egli anni alcune ricostruzioni: ricordiamo la videoinchiesta di Francesco Lopez sentenze Benny Vive! per Oz Film (2009), Pino Casamassima ha avuto il merito di iscrivere Benedetto Petrone nella lunga, triste anagrafe delle vittime neofascismo negli anni Sessanta e Settanta con il volume Il sangue dei rossi (Cairo ed., 2009), sottraendolo così alla penombra in cui è avvolta tanta vita politica e sociale degli anni Settanta che non si sia svolta nelle metropoli della contestazione: Milano, Roma, Torino, Bologna. E poi c’è il libro-inchiesta Le due città, pubblicato a caldo nel 1978, a suo modo un longseller: ormai introvabile, passato di mano e fotocopiato tantissime volte, come un samizdat, finché l’editore Manni non lo ha ripubblicato dieci anni fa.

Un gran lavoro di esercizio della memoria hanno svolto il Comitato 28 novembre (presieduto da Porzia Petrone, la sorella di Benedetto) e l’Anpi, l’associazione dei partigiani: l’intitolazione della via di ingresso a Bari vecchia ne è l’esempio più efficace. Ciò nonostante nel corso del tempo si sono ripetuti i tentativi di infangare la figura di Benedetto Petrone insinuando fosse un piccolo delinquente barivecchiano; di confinare l’episodio nella teoria degli opposti estremismi, che è poi stata funzionale alla negazione della strategia della tensione. C’è stato il tentativo di contrastare la diagnosi della contrapposizione delle «due città» (quella progressista e quella reazionaria, quella della borghesia mercantile e quella dei lavoratori e degli studenti).

E infine si è osservato il fenomeno della riduzione sentimentale, intimista dell’esperienza politica. Una riduzione che ha coinvolto qualche intellettuale troppo giovane per aver potuto vivere nei propri occhi quelle giornate, ma incentivata da testimonial di peso come Nichi Vendola, quando ha parlato di battesimo di sangue per una generazione che dovette rapidamente farsi adulta. Per tanti altri che non hanno rinunciato alla curiosità del cambiamento è vero semmai il contrario: come cantava Jacques Brel, «c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti».

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