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mariti carcerieri
Giovanni Rivelli
09 Febbraio 2017
di GIOVANNI RIVELLI
POTENZA - Chiuse in casa a chiave dai mariti. Perché non possano vedere altre persone, perché non possano uscire. Non è il medioevo né il 2017 nei territori dell’Isis ma la Basilicata del terzo millennio. E ieri una coincidenza del destino ha voluto che due casi si accavallassero temporalmente, il primo con l’arresto di un uomo avvenuto a Marsicovetere, in Val d’Agri, il secondo con l’avvio dell’udienza preliminare (che sarà definita col giudizio abbreviato) nei confronti di un poliziotto per fatti verificatisi a Melfi.
In entrambi i casi la contestazione per gli uomini è di sequestro di persona, in entrambi i casi l’accusa si aggiunge a quella di maltrattamenti in famiglia. Diversi forse i pretesti, ma questo è un dettaglio.
Così a Marsicovetere ieri è stata la gelosia a scatenare le ire di un operaio 55enne. Qualcuno gli aveva detto di stare attento ai movimenti della moglie, che «non rigava dritto», e così ha deciso di sistemare la cosa per le vie spicce. È andato a casa ha minacciato la donna con una pistola a salve ma priva del «tappo rosso» sulla canna, l’ha malmenata e poi l’ha chiusa in casa, impedendole di uscire. «io lavoravo per portare il pane a casa e tu ti davi alla bella vita», gridava lamentando il tradimento. Grida e clamore che hanno però richiamato l’attenzione dei vicini che, a loro volta, hanno allertato i carabinieri. Così i militari giunti sul posto hanno tratto in arresto l’operaio evitando che la situazione potesse degenerare».
Nelle stesse ore, nel Tribunale di Potenza davanti al Gip approdava un altro «sequestro di moglie», che secondo l’accusa si sarebbe verificato a Melfi nel 2007 e venuto fuori quasi per caso nell’ambito di un procedimento per maltrattamenti a carico del marito (un poliziotto di 60 anni (difeso dall’avv. Giogio Cassotta). La moglie (assistita dall’avvocato Luigi Laviano), raccontando delle botte periodicamente ricevute, aveva raccontato anche di quell’episodio del gennaio di 10 anni fa in cui il marito l’aveva chiusa a chiave nella stanza e lasciata a casa. «La mattina - ha detto - mi ha chiuso e se ne è andato. Le altre volte chiudeva, lui era in casa, mi faceva stare dici minuti, un quarto d’ora, poi quando passava apriva e se ne andava. Invece quella mattina lui mi chiuse e se ne andò proprio».
La donna, però, si convinse a chiedere aiuto. «Ero riuscita finalmente per una volta a tenermi il telefonino - ha raccontato - perché puntualmente lui me lo sequestrava, ancora io chiamavo a qualcuno. Quindi quel giorno chiamai il 112». Una chiamata muta, ma il carabiniere la richiamò e iniziarono a parlare. I militari si offrirono di raggiungerla e aspettarono anche che il marito rientrasse in casa e la liberasse affinché la donna potesse uscire senza inasprire ulteriormente gli animi. La donna non volle subito denunciare e lo fece qualche mese dopo, dopo essersi decisa a separarsi. E nel processo per i maltrattamenti è poi uscito l’episodio del sequestro.
Due storie distanti nel tempo ma parallele, quelle di Marsicovetere e di Viggiano. Ma quella che è forse la più grande delle differenze è proprio la reazione delle due vittime. «Era soltanto arrabbiato ma non mi ha picchiata» ha provato a giustificare il marito la donna valdagrina. «I miei figli - ha raccontato invece la donna di Melfi - li vedevo piccoli bulletti come lui, usavano l’atteggiamento del padre: “La donna non serve a niente”». E anche questa forma d’amore materno l’ha spinta a denunciare.
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