di MASSIMILIANO SCAGLIARINI
BARI - Forse sarebbe potuto bastare un semplice esame. Non più di mezz’ora. Forse avrebbe evitato una di quelle tragedie silenziose che distruggono una famiglia, condannandola a una vita di impegno e sacrifici. Una vita diversa. Due gemelli, nati con gravi disturbi neurologici dopo una corsa disperata tra due ospedali oggi chiusi. È passato quasi un quarto di secolo. Ciò che accadde quella notte della primavera 1992, pochi giorni prima della strage di Capaci, è costato alla Regione la condanna al più pesante risarcimento da responsabilità medica nella storia della sanità pugliese: quasi 5 milioni di euro. Una cifra che, se la sentenza verrà confermata in appello, è destinata necessariamente a crescere.
La protagonista della storia è una giovanissima madre della Murgia barese che a maggio 1992 viene ricoverata d’urgenza all’ospedale di Gravina per il rischio di un parto prematuro alla 32 settimana. Lì i medici non sanno che fare. Due giorni dopo la donna viene trasferita nel reparto di ostetricia dell’ospedale di Bitonto. Qui, dopo una notte di dolori, nascono i suoi due gemelli. Uno ha braccia e gambe paralizzate, l’altro gravi malformazioni del viso. La diagnosi, nel freddo linguaggio dei medici, è tetraparesi spastica per il primo, displasia ectodermica con ritardo psicomotorio per il secondo bambino.
Passeranno molti anni, è il 2002, prima che la vicenda approdi in un tribunale. E ne serviranno ancora altri 13 affinché si arrivi ad una sentenza di primo grado, pesantissima. Sia per la cifra, ma soprattutto perché di quella vicenda non ci sono responsabili. La consulenza tecnica disposta dal giudice Laura Fazio della sezione distaccata di Altamura del Tribunale di Bari è, del resto, estremamente cauta: non è semplice ricostruire l’accaduto a distanza di due decenni, riportando l’operato dei medici alle linee guida dell’epoca. Anche perché, come spesso accade, le cause possono essere diverse e si intersecano tra loro.
L’asfissia intrapartum è un fenomeno rarissimo, causato probabilmente - non ci sono certezze scientifiche - da anomalie nella formazione della placenta: se ne registrano due ogni mille nati, ma l’incidenza dei danni cerebrali è ancora più bassa (due ogni diecimila). Questo perché ci sono esami, come la Ctg (cardiotocografia fetale), in grado di evidenziare i sintomi di asfissia: in quei casi si interviene con un taglio cesareo. Ebbene, al ricovero a Bitonto il medico di turno aveva prescritto una Ctg. Ma i tracciati non sono mai stati ritrovati. Il giudice li ha ritenuti «non eseguiti».
Il Tribunale ha escluso responsabilità da parte del primario dell’ospedale di Gravina, mentre ha rilevato «una serie di grossolane omissioni» nel comportamento dei medici di Bitonto, mai identificati e tacciati di «negligenza». Il consulente ha parlato di «lacunosa ed incompleta compilazione della cartella clinica nella parte in cui non vi è descrizione del parto e non è stata esaminata la placenta». La Ctg fantasma «avrebbe consentito di accertare una qualche sofferenza fetale tale da giustificare una modalità del parto differente». Ma anche una emogasanalisi «avrebbe potuto mostrare la presenza (o meno) di un distress respiratorio in atto». La tesi del consulente, fatta propria dal tribunale, è che i medici non si siano accorti di una «probabile» e «preesistente» asfissia intrapartum a causa di proprie «gravi e rilevanti omissioni strumentali e cliniche». Anche se il medico legale non ha potuto stabilire «se e in che misura» le leggerezze dei medici di Bitonto «possano aver contribuito ad aggravare le patologie neurologiche in atto» sui feti, il giudice ha applicato il principio di vicinanza della prova. L’ospedale, insomma, «agevolmente avrebbe potuto sconfessare le circostanze dell’inadempimento, provando di aver eseguito gli esami strumentali indicati». Ma non lo ha fatto. E ora le casse della sanità pugliese (la Regione e la gestione liquidatoria della ex Usl Bari 8, in minima parte l’assicurazione) pagheranno i danni.
I danni. Il giudice ha riconosciuto rispettivamente poco più di un milione e 1,4 milioni ai due gemelli, e 77mila euro a ciascuno dei due genitori per «la compromissione delle loro possibilità relazionali anche attesa la loro giovane età». Nulla, invece, per il padre che ha lasciato il lavoro per stare vicino ai due gemelli: una scelta «libera» e «sicuramente encomiabile», ha scritto il giudice, ma i figli erano già assistiti dalla madre e da personale medico pagato dalla famiglia. In totale, circa due milioni e 600 mila euro che con gli interessi e la rivalutazione diventano poco più di 4,5.
La sentenza è stata depositata a maggio 2015. Ma la storia è emersa soltanto ora perché, nel frattempo, i genitori hanno effettuato un pignoramento da 6,8 milioni e ora il Consiglio regionale deve riconoscere il debito fuori bilancio. La Regione ha impugnato la sentenza di primo grado e la Corte d’appello a luglio l’ha sospesa per i quattro quinti. La famiglia ha già ottenuto 900mila euro. I due gemelli oggi hanno quasi 26 anni, e aspettano ancora di avere giustizia.