Bari - I bimbi del Sud sono svantaggiati sul piano delle cure sanitarie rispetto ai coetanei del Nord. Una ennesima spia dell’Italia a due velocità, con rilevanti differenze di diritti che minano la coesione sociale, emerge da due recenti della Società italiana di Pediatria. L’analisi rivela una amara realtà: chi nasce nel Sud a sconta sin da piccolo molte più difficoltà di accesso a cure adeguate, un rischio del 50% maggiore di morire nel primo anno di vita rispetto ad uno che nasce nelle regioni del Nord, e un rischio del 70% più elevato rispetto a un coetaneo del Settentrione di dover migrare in altre regioni per curarsi, attraverso i viaggi della speranza diventati ormai un fattore endemico.
A sostanziare queste rilevazioni, i pediatri fotografano nel Mezzogiorno meno strutture di eccellenza, meno investimenti sulla prevenzione e le nuove tecnologie, difficoltà organizzative, sprechi di risorse e anni di piani di rientro che hanno privato le regioni, a partire dalla Puglia, della possibilità di assumere medici e operatori nonché di investimenti in innovazione. Il primo studio, in pubblicazione sulla rivista Pediatria, utilizzando gli ultimi dati Istat disponibili, ha verificato nel periodo 2006-2018 una progressiva diminuzione della mortalità neonatale (nei primi 28 giorni di vita) e infantile (nel primo anno di vita): allo stato l’Italia è uno dei paesi al mondo con la mortalità più bassa in quella fascia di età. Nel 2018 si sono avuti 1.266 decessi in Italia nel primo anno di vita, ma con differenze territoriali: nel Sud (che ha avuto il 35,7% di tutti i nati) i decessi neonatali e infantili sono stati rispettivamente il 48% e il 45% rispetto a quelli avvenuti in Italia. Cosa significano queste percentuali? Con il tasso di mortalità del Nord, nelle regioni meridionali ci sarebbero stati ben 200 bambini «sopravvissuti» in più. Il secondo approfondimento pubblicato su Italian Journal of Pediatrics, ha fatto luce sulla migrazione sanitaria dei minori nel nostro Paese, ovvero sui viaggi della speranza per ricevere cure, da quelle per tumori a quelle per le malattie rare. I numeri qui sono ancora più accentuati nel mostrare le differenze territoriali: su 7,8 milioni di under 15enni, i baby-pazienti del Sud hanno dovuto sposarsi con maggiore frequenza rispetto a quelli del Centro-Nord (11,9% contro 6,9%). Questa mobilità sanitaria ha anche un costo: ben 103,9 milioni. L’incidenza nei bilanci regionali è notevole e “pesa” soprattutto in Campania dove per i ricoveri di bimbi fuori regione si spendono 25 milioni di euro, pari al 12% dei costi sanitari per questa popolazione. Sulla migrazione sanitaria questa è l’opinione di Mario De Curtis, presidente del Comitato per la Bioetica della Sip: «Determina profonde sofferenze per il distacco dal luogo di origine, problemi economici per le famiglie e difficoltà di lavoro dei genitori». «L’idea che nascere in un particolare territorio possa offrire una minore probabilità di cura e di sopravvivenza non è accettabile» per la presidente Sip Annamaria Staiano. «La pandemia - argomenta - ha messo in ginocchio il Paese ma ora ci offre l'opportunità di un cambiamento. L'auspicio è che i fondi di cui potremo usufruire siano adoperati per attuare interventi tali da ridurre il divario Nord-Sud e garantire lo stesso diritto alla salute a tutti i bambini».
L'ESPERTO - Nicola Laforgia, professore ordinario di pediatria dell’Università di Bari, un bambino del Sud ha il 50% di rischio di morire in più di uno del Nord. Lo dice la Sip. Come si spiegano questi numeri? «Bisogna però vedere il trend degli ultimi anni. La progressione di miglioramento non è diversa tra Nord, Centro e Sud. I passi avanti stanno riducendo lentamente un divario atavico, ma c’è da lavorare con l’impegno di tutti. Non tutte le regioni sono finanziate nella stessa maniera. La Puglia ha meno risorse statali dell’Emilia Romagna (a parità di popolazione) e ci sono stati i piani di rientro con scelte che hanno comportato lacrime e sangue. Il pubblico sconta maggiori difficoltà per tante pastoie burocratiche nell’intervenire sull’innovazione e nelle assunzioni. Certo i limiti della regionalizzazione della Sanità sono evidenti. Una maggiore omogeneità avrebbe reso il settore più efficiente. Il tema non è gemmare ospedali pediatrici, ma costruire reti di strutture che funzionano. Soluzioni? Bisogna lavorare sulle verifiche continue e chiudere dove si spreca e intervenire per potenziare dove c’è risposta vera ai bisogni delle famiglie. Ci vuole inoltre un tavolo permanente per l’età pediatrica per continuare a ridurre ancora di più il gap dal Nord con interventi finalizzati e con la presenza dell’Università che deve contribuire alla formazione e alla diffusione di cultura sanitaria».