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Tutti i partiti in cerca d’autore, tra crisi e rilancio

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Tutti i partiti in cerca d’autore, tra crisi e rilancio

Al Pd manca un’idea sociale forte. Per il M5S non basta l’ecologia

Sabato 03 Aprile 2021, 15:02

BARI - L’emergenza pandemica, la crisi economica e quello sociale, un Governo che è tecnico ma anche parecchio politico. E, ancora, il continuo equilibrismo tra responsabilità e propaganda, le alleanze, i perimetri delle coalizione. Dal Dopoguerra ad oggi, poche volte i partiti italiani si sono trovati ad affrontare uno «stress test» come quello attuale che capita, per soprammercato, anche in una fase di estrema debolezza della politica. Tutto è negoziabile e la crisi di identità è dietro l’angolo. Ecco la radiografia dei principali partiti italiani.

Forza Italia. Per i moderati di centrodestra il governo Draghi è una esperienza meno borderline rispetto ai sovranisti. Non pagano né lo scotto della «giustificazione» (il dover motivare continuamente perché si è entrati) né la necessità di smarcarsi spesso e volentieri dalle decisioni assunte dall’esecutivo. Lo loro è, a conti fatti, una collocazione quasi naturale. Dunque, serve solo capitalizzarla e assistere alle scudisciate che si infliggono Meloni e Salvini come terzo «comodo», cioè come parte riflessiva e non concorrenziale all’interno di una coalizione che, prima o poi, sarà chiamata a ritrovarsi. Si tratta di gestire più che di inventarsi qualcosa. L’unico campanello di allarme è quello che attivato dai sondaggi non proprio clementi. Dopo il governo Monti, Berlusconi recuperò facendo cascare l’esecutivo e, praticamente, fingendo di non avervi mai preso parte. Stavolta il riscatto dovrebbe passare da iniziative più ragionate. C’è tempo. Ma non troppo.

Fratelli d’Italia. Da unica opposizione esibisce il gagliardetto dell’eterna coerenza che, poi, è un po’ come l’Inter unica squadra a non essere andata in B. Un merito, certo, ma comunque i risultati servono perché le medaglie al petto, dopo un po’, sono buone solo per lo specchio. E che può fare Giorgia Meloni fuori dalla stanza dei bottoni? Godere di qualche affanno leghista e incassare altro consenso, innanzitutto, rosicchiando a Salvini il primato di leader più gradito del centrodestra (alcuni sondaggi li danno appaiati). Ma soprattutto pensare al domani. Fratelli d’Italia ha quello che gli altri, pressati dalle urgenze, non hanno: il tempo. Tempo per serrare i ranghi, per strutturarsi meglio, per formare e attrarre una classe dirigente all’altezza delle prossime sfide. Insomma, per prepararsi alla battaglia che prima o poi verrà. È un gioco solipsistico, certo, ma indispensabile se si vuole andare oltre il contingente.

Italia viva. Dopo aver monopolizzato per settimane, se non per mesi, l’attenzione pubblica e aver di fatto propiziato l’avvento del governo Draghi, Matteo Renzi è uscito dal cono di luce. S’è, di fatto, «carneadizzato» per riprendere il manzoniano interrogativo del «chi era costui?». E se rispunta fuori è di solito per qualche motivo poco simpatico come le sortite arabe. Anche il combinato disposto dei suoi arcinemici Letta e Conte non gioca propriamente a favore di un rilancio di Iv che, al di là dei proclami, potrebbe restar fuori dal centrosinistra che verrà o, comunque, rimanervi in posizione marginale. Serve un nuovo colpo di teatro per far risalire le quotazioni. Renzi ha dimostrato più volte di sapersi prendere la scena al di là delle percentuali di consenso. Dunque, c’è da attendersi qualche nuovo guizzo. Magari non nell’immediato, ma più avanti sì. Preparate i pop-corn.

Lega. La via del governo è come quella per l’inferno: lastricata di buone intenzioni ma non sai mai dove rischia di portarti. La storia insegna che il tentativo di mantenere vivo il doppio registro, di lotta e di governo, non è quasi mai vincente. Alla fine si pende sempre da una parte sola, di solito quella incistata nel potere. Matteo Salvini aveva scelto di fare dell’antico movimento federalista, espressione del padronato settentrionale, una forza sovranista e anti-europea. Oggi si ritrova al governo con Draghi di cui punta ad essere buon soldato ma anche pungolo interno e quotidiano. Sfortunatamente, «dentro e contro», per citare un famoso saggio del politologo Marco Revelli, sono due termini che fanno a botte. Alla fine i lockdown continuano, Speranza è rimasto lì dov’era e la sofferenza economica pure. Convincere gli italiani che la Lega c’entra solo con le cose buone ma non ha nulla da spartire con quelle più indigeste sarà difficile nel lungo periodo. Anche perché poi qualcuno comincerà a suggerire di «strappare» ma l’ingresso nel governo Draghi è costato la vendita al banco dei pegni di tutto l’armamentario anti-europeista. Andarlo a recuperare, fingendo di averlo deposto solo momentaneamente in cantina, sarà dura.

Movimento 5 stelle. Se il Pd, come vedremo, cerca con lanterna di Diogene la propria idea-forte, il M5S ha esattamente il problema opposto: ne ha troppe e spesso finisce per esserne vittima. Vale, ad esempio, per il vincolo del doppio mandato e la gestione della piattaforma Rousseau, due bandiere che hanno sventolato sulle guglie del Movimento fin dai suoi esordi e che ora rischiano di trasformarsi in un boomerang. L’ex premier Giuseppe Conte, incaricato di dare anima e ordine ai pentastellati, si è guardato bene dall’affrontare le due patate bollenti nel discorso d’esordio alla congiunta. Piuttosto ha preferito puntare tutto sulla transizione ecologica che, per l’avvocato di Volturara Appula, è una specie di grimaldello buono per qualsiasi serratura. La utilizzò al momento della transumanza dal governo con la Lega a quello con il Pd («sono qui perché al Paese serve una svolta verde») e lo sta utilizzando ora per il inaugurare il nuovo corso. Un po’ poco, per la verità, perché il M5S ha un problema di identità e di collocazione generale da sciogliere. Il Pd non ha quello che hanno loro. Ma loro non hanno quello che ha il Pd.

Partito democratico. Il nuovo corso inaugurato da Enrico Letta, che pure ha il grande merito di porgere l’orecchio alla base, profuma tanto di quel modernariato non sempre affascinante. Soprattutto in un inciampo specifico: le ragioni della riscossa sono rintracciate tutte in temi piuttosto periferici, di nicchia, che non incrociano né l’emergenza sociale e nemmeno quella pandemica. Svolta rosa con i capigruppo, ius soli, voto ai 16enni: in tempo di pace tre proposte che avrebbero potuto condizionare il dibattito rimettendo i democrat al centro della scena. Oggi servono più ad eccitare i circoli dei radical chic (contro cui, giustamente, Zingaretti si batteva) che a elettrizzare gli italiani. Alla fine della giostra, il problema del Pd è sempre quello: rintracciare una battaglia forte, possibilmente sociale, che lo identifichi. «Quota 100» o «il Reddito di cittadinanza», giuste o sbagliate che siano, sono proposte identitarie che rimandano immediatamente ai partiti che le hanno concepite e attuate. Ma i dem? Piuttosto che fare assemblee su assemblee, ritinteggiare la facciata del partito con il Superbonus delle donne al potere e pernottare nel laboratorio alchemico delle alleanze, forse sarebbe il caso di spremersi le meningi e partorire la montagna. Di topolini ce ne sono già troppi.

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