Il danno che ambientale che Tap e Saipem avrebbero fatto al territorio pugliese nella realizzazione del gasdotto è pari a 225 milioni, ovvero il 5 per mille del valore del gasdotto internazionale entrato in esercizio già da alcuni mesi. Ed è questo il risarcimento che la Regione ha chiesto ai manager delle due multinazionali imputati a Lecce (e alla stessa Tap) nel processo per i lavori di costruzione avvenuti - secondo l’accusa - in assenza dei permessi: violazioni che invece gli interessati ritengono insussistenti.
Le contestazioni del procuratore Leonardo Leone de Castris e del pm Valeria Farina Valaori hanno a che fare con violazioni alle norme in materia di ambiente e di edilizia e riguardano ad esempio l’espianto degli ulivi (l’area venne dapprima sequestrata e poi restituita, a fine 2019) e l’inquinamento della falda acquifera in prossimità del cantiere. Ne rispondono a vario titolo 19 persone, legali rappresentanti e progettisti delle ditte che hanno partecipato ai lavori di realizzazione del tratto italiano del gasdotto e che - in base ai risultati dell’indagine - avrebbero operato in difformità rispetto ai titoli autorizzativi oppure, è il caso dello scarico dei reflui ma anche della costruzione del microtunnel e della stazione di collegamento alla rete, senza aver ottenuto alcun permesso. Il gasdotto e le sue opere complementari sono infatti state realizzate in aree sottoposte a vincolo paesaggistico: una perizia disposta in sede di indagini preliminari ha ad esempio ritenuto carente lo studio di impatto ambientale predisposto da Tap, che non avrebbe tenuto in debito conto gli impatti cumulativi delle diverse opere sull’area destinata ad ospitarle. I decreti ministeriali del 2014 e del 2015, che hanno attestato la compatibilità ambientale del progetto, secondo l’accusa non sostituiscono le autorizzazioni paesaggistiche. Tap viceversa ritiene di aver sempre operato in base alla legge, completando i lavori senza arrecare alcun tipo di danno al territorio.
La Seconda sezione del Tribunale di Lecce (giudice Saracino) venerdì scorso ha accolto tutte le istanze di costituzione di parte civile presentate dai Comuni (Melendugno, Vernole, Calimera, Lizzanello, Martano, Corigliano d’Otranto e Lecce), da alcune associazioni (ne è stata esclusa una per difetto di procura), da due proprietari di suoli e abitazioni circostanti e dal gestore di un lido di San Foca che si ritiene danneggiato dal «tubo» che passa sotto la sabbia. La Regione (con Francesco Zizzari dell’Avvocatura interna) ha dunque valorizzato il danno di immagine che conseguirebbe dalla condotta illecita degli appaltatori, prendendo a base il valore dell’opera dichiarato da uno dei dirigenti di Tap in una intervista (4,5 miliardi di dollari).
E così, mentre poche settimane fa il direttore del dipartimento Sviluppo economico, Domenico Laforgia, stigmatizzava la conflittualità nei confronti della multinazionale Tap, rilevando che il «muro contro muro» è costato finora ai Comuni salentini una cinquantina di milioni di euro in mancati investimenti compensativi sul territorio, i vertici della Regione tengono il punto e chiedono che il Tribunale accerti l’illegittimità delle opere realizzate. E ancora una volta, dopo il caso Ilva e la strage dei treni, a rispondere delle conseguenze di un reato sono chiamati, oltre che i singoli imputati, anche le società ritenute responsabili secondo la legge sugli illeciti amministrativi. Il processo riprenderà il 9 aprile per l’inizio del dibattimento.