Mai come in questo momento dovrà tenere la categoria salda e compatta. Non sarà semplice la missione di Umberto Calcagno, neo presidente dell’Associazione Italiana Calciatori. 50 anni, ligure di Chiavari, laureato in giurisprudenza, avvocato dal 2002 con particolare dedizione al diritto sportivo. L’ascesa al vertice del sindacato dei calciatori si è concretizzata con l’elezione dello scorso 30 novembre, ma in realtà ricopriva l’incarico fin dallo scorso giugno ad interim: da vice presidente, infatti, aveva dovuto sostituire il dimissionario Damiano Tommasi. Calcagno vanta un solido legame con la Puglia: da calciatore ha vestito (tra le altre) le maglie di Trani, Barletta e Martina Franca.
Umberto Calcagno, come cambierà il «suo» sindacato?
«Vorrei una categoria attiva, partecipe, propositiva. Negli ultimi dieci anni a mio avviso abbiamo un po' perso l’opportunità di riformare il movimento del calcio italiano. Ora l’esigenza è improcrastinabile. La pandemia ce lo impone sul lato organizzativo, economico, della sostenibilità».
Le basi della riforma sembrano, però, passare da una riduzione degli organici: non si creerà un problema di collocazione per i calciatori?
«Il sistema attuale è in sofferenza: probabilmente non può reggere l’attuale numero di squadre professionistiche. La priorità, però, è un’altra: ovvero, capire quali società hanno i mezzi, la volontà e le idee per fare calcio professionistico. Pertanto, l’eventuale riduzione delle compagini deve essere un punto d’arrivo causato da fattori oggettivi. Non la base da cui partire».
La B, però, ha già varato il cambio di format, la C potrebbe seguirla a breve.
«Nelle categorie inferiori alla A sono molti gli aspetti da valutare. Noi vogliamo che i nostri tesserati non perdano il lavoro, ma al contempo la dignità dell’impiego deve essere garantita. Non sono ammissibili omissioni nelle retribuzioni o casi limite come Trapani che, peraltro, rischia di non rimanere isolato, date le difficoltà di svariati club. Quindi, ribadisco: si deve analizzare la realtà e poi procedere a decisioni relative ai format. Non il contrario».
Quanto è difficile gestire la quotidianità in questa fase della pandemia?
«Penso che i calciatori stiano dando uno straordinario esempio di professionalità: hanno rinunciato alla loro quotidianità: vivono tra casa, campo di allenamento, impegni ufficiali. Lo fanno con responsabilità perché tutti dobbiamo impegnarci nel portare a termine le stagioni sportive con la massima regolarità e regalare agli italiani un momento di distrazione».
I mesi persi lo scorso anno obbligheranno ad un 2021 carico di impegni?
«Al di là della situazione eccezionale, i calendari erano già compressi in maniera eccessiva. Da un lato, le competizioni di livello portano prospettive floride sul piano dei diritti televisivi, ma dall’altro i format vanno probabilmente ridiscussi e snelliti, come da tempo si valuta sulla Champions e l’Europa League o sugli impegni delle nazionali».
A tal proposito, i club vedono sempre più come un fastidio le chiamate in nazionale: il traguardo per un calciatore si sta tramutando in un problema?
«Non scherziamo: la nazionale è un onore e mantiene un potere aggregativo unico. Magari si possono ridiscutere alcune finestre. In Italia è esemplare la gestione del ct Roberto Mancini che magari convoca un numero superiore di calciatori al fine di ruotarli e non esporre ad iper stress i top players»