Il fenomeno del caporalato, in agricoltura come nelle attività artigiane, è noto e viene monitorato da tempo. Ma l’inchiesta del New York Times sullo sfruttamento della manodopera nell’alta moda in Puglia ha fatto molto rumore, ha creato polemiche, ed ha rilanciato il tema dei controlli. Proprio partendo da quanto segnalato nel servizio del quotidiano Usa, la Finanza ha avviato una nuova serie di verifiche sul territorio nell’ambito di attività già in corso da tempo. Al momento, però, agli elementi di fatto esposti dal «Nyt» non ci sono riscontri.
I militari del comando provinciale di Bari, agli ordini del generale Nicola Altiero, hanno infatti provato a identificare l’anonima donna di Santeramo in Colle che - secondo il quotidiano - percepirebbe un euro per ogni metro di tessuto lavorato nella realizzazione di cappotti di lusso che poi vengono venduti tra gli 800 e 2.000 euro nelle boutique di Max Mara. Una identificazione che, secondo la Finanza, è impossibile: elementi troppo generici, ma in un territorio - quello di Santeramo - dove il lavoro artigianale fuori dalle fabbriche si concentra soprattutto nel settore del mobile imbottito. L’altro esempio citato dal New York Times è una donna, Maria Colamita, 53 anni, che «vive nella cittadina pugliese di Ginosa» e che parla di un’attività svolta un decennio prima come ricamatrice di abiti da sposa per 1,50-2 euro l’anno. Secondo le Fiamme Gialle, però, a Ginosa non esisterebbe nessuna persona con quel nome.
Le verifiche della Finanza andranno avanti, pur nella consapevolezza dell’estrema difficoltà di identificare un simile fenomeno. Per arrivare alla sarta impiegata in casa, infatti, è necessario prima identificare l’ipotetico terzista che le affida il lavoro, risalendo la catena nei due sensi: da un lato verso il marchio che commissiona il capo, dall’altro verso il cottimista. È chiaro che alle cifre di cui parla il quotidiano Usa (cui la «Gazzetta» ha chiesto una replica: è riportata alla fine dell'articolo) ci si troverebbe di fronte a un vero e proprio caso di caporalato nel mondo dell’alta moda.
Il fenomeno del caporalato è storicamente presente in Puglia, nell’agricoltura ma non solo. La legge del 2016 ne ha inasprito le pene, collegandole allo sfruttamento dello stato di bisogno del lavoratore: il principale parametro è, appunto, la retribuzione che non deve essere troppo difforme rispetto a quella fissata dai contratti collettivi. Il contrasto a questo fenomeno non può che avvenire con una azione su più fronti: quella di polizia economica, certo, ma anche l’impiego mirato degli ispettori del lavoro e la funzione di sorveglianza svolta dai sindacati.
In Puglia il ricorso al caporalato è risultato in aumento negli anni, in coincidenza con la crisi economica, ed è stato registrato prevalentemente nel settore agricolo. Alcune zone della provincia di Bari (prevalentemente il Nord ed il Sud-Est), la Bat, ma soprattutto il Brindisino e il Tarantino oltre che la provincia di Matera per la raccolta delle fragole. Gli esempi nella cronaca non mancano. Solo per rimanere tra Bari e la Bat, la Finanza segnala 313 interventi nel 2017 e 211 fino al 18 settembre di quest’anno, che hanno consentito di identificare rispettivamente 563 e 416 lavoratori in nero, 458 e 191 lavoratori irregolari, e 216 e 128 datori di lavoro verbalizzati per l’utilizzo di manodopera in maniera non conforme alle leggi. Nel 2017 l’operazione «Paola», a seguito della morte della bracciante Paola Clemente, portò la Procura di Trani a ottenere sei misure cautelari ai domiciliari per i suoi presunti sfruttatori. Nello scorso luglio, invece, l’operazione «Macchia Nera» ha portato a scoprire nel Sud-Est barese una organizzazione dedita al caporalato nella raccolta di uva e ciliegie, con l’arresto di una donna, quattro obblighi di dimora e il sequestro di oltre un milione di euro.
LA REPLICA DEL NEW YORK TIMES
«La nostra inchiesta è stata condotta in maniera meticolosa e si basa su interviste con svariate fonti e ricerche effettuate per mesi. Siamo stati particolarmente attenti a enfatizzare che le situazioni descritte si riferiscono principalmente a imprese intermediarie, ed è probabile che nessuno dei marchi coinvolti fosse a conoscenza di quanto avveniva nei vari stadi della catena di approvvigionamento. L’intento di questo articolo è di fare luce su uno degli angoli più oscuri del mondo della moda italiana. Continuiamo a sostenere la nostra versione». È questa la risposta che il New York Times, tramite un portavoce, offre alle domande della «Gazzetta» sui contenuti dell’inchiesta pubblicata il 20 marzo. Nessun commento nel merito dunque, ma il richiamo all’utilizzo di «svariate fonti» che avrebbero confermato lo sfruttamento di lavoratrici nel settore dell’alta moda.
Il quotidiano fa notare la propria politica sull’utilizzo delle fonti anonime, che prevede un sistema di verifica particolarmente approfondito in cui - tra l’altro - l’identità della fonte deve essere nota (oltre che all’autore dell’articolo) anche al suo caporedattore, che deve essere pronto a rivelarla - se richiesto - ai responsabili della redazione. Regole che - garantiscono dal «Nyt» - sono state «correttamente applicate» anche all’inchiesta sul mondo della moda in Puglia.