La card del docente, il bonus di 500 euro riconosciuto annualmente ai soli insegnanti di ruolo spetta anche ai precari. Una sentenza del Consiglio di Stato (1842/2022), pubblicata alcuni giorni fa, rischia di abbattersi come un ciclone sulle casse del Ministero dell’Istruzione che potrebbe ritrovarsi a gestire un buco di oltre mezzo miliardo di euro da un possibile contenzioso attivabile da oltre 210mila precari (dati ministro Bianchi) per gli ultimi sei anni. La decisione della settima sezione di Palazzo Spada (presidente Roberto Giovagnoli, relatore Pietro Berardinis) ha sancito il diritto per i supplenti a percepire la carta del docente prevista da una norma del 2015.
Come possa aver fatto una sentenza di un giudice «non costituzionale» a modificare una legge è presto detto. Per questo, bisogna riportare le lancette indietro di sette anni, quando è stata varata la legge 107 del 2015 di riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione. Due commi dell’art. 1 (il 121 e il 122) hanno previsto il riconoscimento a ogno docente di ruolo del bonus di 500 euro annui per ciascun anno scolastico, da utilizzare per l’acquisto di libri e di testi, riviste, pc, softare, biglietti per musei, corsi di formazione, e così via. Una iniziativa, insomma, sulla falsa riga del «bonus 18enni».
Dopo la legge è seguito un decreto interministeriale, pubblicato nel mese di settembre 2015 e, a cascata, una nota applicativa del Ministero (emessa un mese dopo) che ha sancito l’inizio di una vera e propria discriminazione.
Tale infatti, è stata linea di difesa, condivisa dal Consiglio di stato, dagli avvocati foggiani Tommaso De Grandis e Vincenzo De Michele che hanno assistito nel ricorso circa mille insegnanti «precari» (di religione), facenti capo allo Snadir (Sindacato nazionale autonomo degli insegnanti di religione).
Il primo round, dinanzi al Tar Lazio, si è concluso nel 2016 con una sentenza di rigetto, mentre l’appello al Consiglio di Stato ha avuto un esisto inaspettato in quanto i giudici - respingendo l’eccezione di incostituzionalità correttamente sollevata dai legali - hanno preferito fare in autonomia con un giudizio che hanno ritenuto «costituzionalmete orientato» anticipando evidentemente il possibile esito di una pregiudiziale presentata dinanzi alla Corte di giustizia dal tribunale di Vercelli, in un’altra analoga controversia sollecitata dall’Anief (associazione nazionale insegnanti e formatori).
I giudici di appello amministrativo hanno messo in luce la contradditorietà della Card così concepita, definendolo un sistema di formazione «a doppia trazione»: quella dei docenti di ruolo, la cui formazione è obbligatoria, permanente e strutturale, e quindi sostenuta sotto il profilo economico della Carta, e quella dei docenti non di ruolo, per i quali non vi sarebbe alcuna obbligatorietà e, dunque, alcun sostegno economico.
Tale discriminazione, come emerge dalla decisione «collide con l’esigenza del sistema scolastico di far sì che sia tutto il personale docente (e non certo esclusivamente quello di ruolo) a poter conseguire un livello adeguato di aggiornamento professionale e di formazione, affinché sia garantita la qualità dell’insegnamento complessivo fornito agli studenti».
Discriminazione marcata anche dalla circostanza che la Carta, negata ai precari, verrebbe al contrario concessa ai docenti part time o addirittura ai docenti in prova, il cui impegno didattico è paragonabile a quello dei supplenti.
La sentenza, infine, con uno slalom argomentativo tecnico-giuridico, bypassa l’eccezione di incostituzionalità della norma individando un percorso alternativo: quella del contratto collettivo di categoria che impone all’Amministrazione l’obbligo di fornire a tutto il personale docente, senza alcuna distinzione. Per farla breve, la legge dispone la Card ma a monte c’è il contratto di lavoro che prescrive parità di diritti. Da qui l’annullamento del Dpcm e della nota ministeriale nella parte in cui non contemplano i docenti non di ruolo tra i destinatari della «Carta del docente».