Morire a 54 anni per una peritonite scoperta in ritardo, in ospedale, dopo un’attesa di venti ore al Pronto soccorso. Una storia di ordinaria malasanità, una di quelle vicende gravi ma purtroppo derubricate all’ordinario per colpa della frequenza in cui si registrano. E che a distanza di anni non trovano ancora un punto di conclusione. È amareggiato Giuseppe Sardella, un signore di Carapelle che il 12 ottobre del 2012 decise di portare sua madre al pronto soccorso degli Ospedali riuniti per i forti dolori all’addome accusati dalla donna che aveva appena 54 anni. La storia è stata raccontata sulle colonne della Gazzetta l’11 novembre 2012, a pochi giorni dal decesso della signora Maria Colomba Izzi avvenuto il 3 novembre. Sardella decise di denunciare subito i medici, accusandoli per la loro negligenza: la signora forse si sarebbe potuta salvare, fu visitata subito ma non si decise per il ricovero. Il figlio decise di non lasciare il pronto soccorso, ma non c’erano altri medici disposti a visitarla e così rimase per tutta la notte su una sedia sperando che facesse giorno il prima possibile. Solo al mattino un altro medico scoprì la gravità del problema disponendo l’immediato intervento chirurgico per una peritonite acuta.
«I fatti da me narrati sono stati tutti opportunamente verificati dalle perizie ordinate dal tribunale di Foggia - riferisce oggi Sardella - il processo è in corso, finora ci sono state quattordici udienze. Ma i giudici sono cambiati tre volte, ogni volta che c’è un avvicendamento l’avvocato difensore dell’ospedale muove eccezioni e si torna alla casella precedente. Un processo estenuante - aggiunge il signor Sardella - mi sembra chiaro che a questo punto l’obiettivo della difesa sia quello di portare il dibattimento per le lunghe così le accuse cadranno in prescrizione, manca solo un anno ormai. Ma questa me la chiamate giustizia? Possibile che non si riesca ad avere un briciolo di verità nemmeno da morti? E con tutte le perizie del caso che hanno confermato la nostra tesi?».
La prossima udienza è fissata per il 22 giugno, la corsa a ostacoli di un processo cominciato nel 2014 dovrebbe essere alle battute finali. Tuttavia Sardella teme altri colpi di scena, si è preoccupato di denunciare il suo caso alla Gazzetta nella speranza di «portare all’attenzione dell’opinione pubblica - spiega - uno dei problemi endemici della nostra società, i tempi lunghi della nostra giustizia».
«Non può esserci civiltà in un paese così - si sfoga Sardella - nel caso di mia madre si sono sommate una serie incredibile di contrattempi che l’hanno portata alla morte in venti giorni. Dopo l’intervento saltò il punto di sutura e dovettero riportarla dopo qualche giorno in sala operatoria. Dieci giorni dopo mia madre morì per setticemia, i periti del tribunale hanno confermato la nostra tesi: il fattore tempo è stato determinante. Se i medici del pronto soccorso si fossero accorti subito della peritonite, forse mia madre sarebbe entrata in sala operatoria dopo qualche ora non il giorno dopo. I fatti hanno accertato in modo inequivocabile come sono andate le cose, è ora che questo processo si concluda».