Venerdì 21 Novembre 2025 | 14:11

Taranto stanca delle promesse vane e mai realizzate, ma dura e forte come l'acciaio

Taranto stanca delle promesse vane e mai realizzate, ma dura e forte come l'acciaio

 
Maristella Massari

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Maristella Massari

Taranto stanca delle promesse vane e mai realizzate, ma dura e forte come l'acciaio

Intorno allo stabilimento siderurgico più discusso d’Europa serpeggia una crisi che non è solo industriale: è una ferita morale, sociale, identitaria

Venerdì 21 Novembre 2025, 14:00

Intorno allo stabilimento siderurgico più discusso d’Europa serpeggia una crisi che non è solo industriale: è una ferita morale, sociale, identitaria. Gli impianti nati negli anni Sessanta per riscattare questo pezzo di Sud dalla miseria sono ancora lì, immobili e ingombranti come un Moloch d’acciaio. Testimoni di un’epoca che ha promesso riscatto e imposto le sue regole, segnando nel bene e nel male il destino non solo di Taranto, ma dell’intera Puglia. Perché la crisi dell’ex Ilva non è un affare di provincia, ma travalica il campanile e mette a rischio l’equilibrio di un sistema sociale che oggi appare fragile come non mai. Quella fabbrica non è soltanto un’emergenza ambientale: è un ordigno sociale a tempo, un tic-tac inquietante che riecheggia sempre più intenso, come nel «Cuore rivelatore» di Edgar Allan Poe. È una guerra tra poveri combattuta sull’asse Taranto-Genova, con gli operai del Nord che temono di affondare insieme alla nave nella tempesta di Taranto.

Oggi l’ipotesi dello spegnimento degli impianti a ciclo continuo, impensabile fino a qualche anno fa, si sussurra intorno alle ciminiere e nelle stanze del potere. E a questa latitudine fa paura. Perché Taranto sopravvive in una dipendenza cronica dall’acciaio, una dipendenza tossica che ha trasformato la città in ostaggio del suo acciaio. Su quell’altare sono stati sacrificati sogni, alternative, forza lavoro, futuro. E tutto ad opera di colossi industriali che hanno spesso privilegiato i margini di profitto a scapito dei margini di vita dei loro operai.

Non serve più nessuno sforzo d’immaginazione: basta ascoltare il silenzio che arriva dalla fabbrica. Un silenzio rotto solo dal sibilo affannoso dell’unico altoforno ancora acceso, un gigante stanco che sbuffa mentre tutto il resto sembra essersi improvvisamente accartocciato. Taranto lo percepisce sulla pelle, come un presagio scuro che ieri ha attraversato la Statale 100, dove un fiume di operai ha occupato ogni metro dell’asfalto per ricordare al Paese che qui non è in gioco una produzione industriale, ma il destino di una comunità.

La cassa integrazione avanza come un’ombra lunga. Settimana dopo settimana si allarga a macchia d’olio, lascia sulle famiglie il suo stigma, spegne nuove certezze. È un limbo che sospende vite e taglia buste paga. E mentre il Natale si avvicina, negli sguardi degli operai non c’è luce: solo l’ansia di un turno che forse non arriverà più, di un lavoro che per decenni ha pagato i conti e le bollette e, con tutti i suoi costi, ha tenuto in vita l’intera città. A pagare un prezzo altissimo è l’indotto: un reticolo vasto e vulnerabile di imprese che vive sul filo dei pagamenti, che teme ritardi, che trema all’idea di commesse che potrebbero non tornare. Un sistema economico che rischia di implodere se la fabbrica si ferma. Perché l’acciaio, nel bene e nel male, è stato il motore che ha acceso tutto. E oggi quel motore tossisce, s’affatica, sputa sangue.

La ritrovata unità sindacale è figlia della paura, ma anche del senso di responsabilità. È questo che ha riportato gli operai a camminare insieme, senza divisioni, chiedendo una sola cosa: verità. Verità sul piano industriale, sugli investimenti promessi e mai arrivati, su una decarbonizzazione proclamata come panacea di ogni male mentre gli impianti cadono a pezzi e la produzione si regge su un miracolo tecnico sempre più precario.

Li ho visti, quegli operai, avanzare compatti come una colata di lava che scende dal fianco di un vulcano. Un’immagine forte che deve orientare: è un popolo che difende il diritto a un presente vivo, è Taranto che lotta per non essere cancellata dalle mappe industriali del Paese. E allora la domanda diventa inevitabile: cosa sarà di noi senza l’ex Ilva? Non è più un tabù. È un interrogativo che rimbalza nelle case, nei corridoi delle scuole, nelle stanze vuote dei ragazzi che sono già partiti. Perché i giovani sognano un futuro diverso. Non vedono la fabbrica come un approdo, né come un’opportunità, né come una maglia da indossare con orgoglio. E forse hanno ragione.

Taranto ha tutto per immaginare altro: il mare più bello, un porto che guarda al Mediterraneo, una storia millenaria, un sistema culturale e universitario in crescita, una tradizione industriale che potrebbe diventare innovazione, green economy, logistica evoluta, blue economy, turismo intelligente e sostenibile. Ma occorre una scelta politica netta, coraggiosa, definitiva. Occorre indicare a Taranto, una volta per tutte, la strada da percorrere. Perché la città è stanca di slogan e annunci, stanca di vivere a intermittenza. Forse da questa lunga notte industriale nascerà un’alba più luminosa, più giusta. Perché Taranto non è solo l’ex Ilva. Taranto è il suo mare, la sua gente, la sua dignità. E la dignità, quando si solleva, è più forte di qualsiasi acciaio.

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