«Opposti negazionismi»: così potremmo riassumere il senso prevalente delle analisi odierne sulla condizione del Mezzogiorno. Da un canto vi è chi si ostina a non voler ammettere i progressi compiuti dal Sud in questi ultimi anni; dall’altra chi nega la persistente attualità del problema, illudendosi che l’antica frattura con il Nord possa già declinarsi al passato.
La realtà è più complessa e meno unilaterale. Non si può negare, infatti, che dopo il Covid il Sud stia vivendo una stagione di crescita. Il Pil è aumentato, l’occupazione ha raggiunto il massimo storico e la schiera degli inattivi si è ridotta. Grazie a una serie di concomitanti coincidenze, si è determinato un prolungato periodo di «convergenza» nel quale il Meridione sta crescendo più del resto del Paese.
La forbice con il Nord, però, resta ampia. E questo non può essere taciuto. I redditi restano più bassi. Dodici punti separano ancora il tasso di occupazione meridionale da quello nazionale. L’occupazione femminile è tra le più basse d’Europa. La produttività registra tutt’ora un distacco di rilievo. E lo sviluppo economico, per di più, non comporta automaticamente crescita civile. Agli atavici problemi che si affollano in quest’ambito se ne aggiunge uno nuovo ma prioritario.
Si sta sottovalutando il rischio che, nel volgere di qualche lustro, al Sud vengano a mancare le risorse umane indispensabili a garantire lo sviluppo. Il Pil sale, ma la società invecchia e le culle si svuotano. Le proiezioni parlano di oltre duecentomila alunni in meno entro il 2035. A ciò s’aggiunge un esodo silenzioso: dal 2002 al 2021 oltre due milioni e mezzo di meridionali, per l’80% diretti al Centro-Nord, hanno lasciato la loro terra, in buona parte giovani sotto i trentacinque anni, più di uno su quattro laureati. Nel 2024 altri 25 mila giovani hanno cercato altrove il proprio futuro.
La mobilità giovanile non è un dramma se si sanno attrarre flussi dall’estero in grado di ridurre il disallineamento delle competenze. Ma lo scorso anno il Sud ha accolto solo il 17% dei 340 mila nuovi residenti in Italia. E assai pochi tra questi possiedono le qualifiche di cui vanno a caccia le imprese. Insomma: vi è una concreta possibilità che il combinato disposto tra calo delle nascite, uscita dei boomers dal lavoro, diaspora giovanile e incapacità di attrarre talenti spinga al collasso quel «fattore umano» su cui si regge ogni idea di sviluppo civile e democratico.
Il Sud cresce ma insieme si consuma. Come un albero che dà frutti generosi mentre le sue radici si fanno più esili.
Piuttosto che sforzarsi di dimostrare che la crescita sia solo un’illusione, bisogna lavorare per consolidare i progressi degli ultimi anni. In tal senso, alcuni interventi si propongono naturalmente. Servono l’utilizzo della leva fiscale e interventi di semplificazione per premiare chi sceglie di avere figli, di restare o di rientrare. Va varato un grande piano di formazione per creare competenze avanzate, in grado di muoversi tra tecnologie emergenti e transizione energetica. Si debbono sollecitare le piccole imprese a fare un salto di scala puntando su filiere come quelle della salute, dello sport e del turismo sostenibile che possono rendere il Sud più competitivo nel Mediterraneo.
La ZES, infine, va resa strutturale, per sburocratizzare e garantire la certezza del diritto a chi investe. Il Sud di oggi non è più totalmente dipendente dall’intervento pubblico, ma ciò non significa che i problemi di ieri siano completamente superati. La storia dell’intervento straordinario ce lo ha insegnato: senza «capitale umano» anche il valore del «capitale economico» si relativizza. La lezione vale anche al tempo dell’intelligenza artificiale. Se mancano donne e uomini in carne ed ossa consapevoli e responsabili, non si va da nessuna parte.