Domenica 05 Ottobre 2025 | 14:36

Spiragli di pace per Gaza, ma le incognite sono ancora troppe

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Spiragli di pace per Gaza, ma le incognite sono ancora troppe

Il condizionale è d’obbligo. La complessità della questione mediorientale e l’imprevedibilità dei comportamenti di alcuni dei soggetti in campo richiedono il massimo di prudenza

Domenica 05 Ottobre 2025, 12:00

Il condizionale è d’obbligo. La complessità della questione mediorientale e l’imprevedibilità dei comportamenti di alcuni dei soggetti in campo richiedono il massimo di prudenza e la rinuncia preventiva a facili entusiasmi. Nonostante ciò, prendiamo atto, con un sospiro di sollievo, che da alcune ore si registra un’aria diversa rispetto alle scorse settimane. E, detto con il massimo di franchezza, non certo per la (pur legittima) mobilitazione di parte dell’opinione pubblica o per gli effetti di azioni dimostrative ad alto valore simbolico come quelle poste in essere dalla Flotilla. Finalmente la diplomazia si è rimessa in moto, creando le condizioni affinché si arrivi nel tempo più breve possibile almeno ad una tregua.

Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dopo aver incontrato il 29 settembre scorso a Washington il premier israeliano Netanyahu, ha lanciato ad Hamas un ultimatum affinché accetti il piano americano e, di conseguenza, si crei una delle condizioni per porre fine al conflitto a Gaza. Il gruppo estremista palestinese aveva tempo fino a stasera per accettare la proposta, ma già nella notte tra venerdì e sabato ha dichiarato, per il tramite dei propri mediatori arabi, la propria disponibilità a rilasciare gli ostaggi israeliani, vivi o morti, e ad avviare negoziati su questioni più specifiche. Trump aveva detto, senza giri di parole, che per Hamas questa era l’ultima possibilità per fermare i bombardamenti israeliani nella Striscia. Bombardamenti che in due anni hanno causato oltre sessantaseimila vittime palestinesi, molte delle quali civili. Compresi tanti bambini. Hamas ha capito che, in caso di rifiuto della proposta, nella migliore delle ipotesi gli Stati Uniti avrebbero consentito che le forze armate israeliane continuassero ad agire indisturbate, nella peggiore che avrebbero schierato anche i propri militari. Trump ha anche aggiunto che sono già stati uccisi oltre venticinquemila combattenti iscritti tra le fila di Hamas e che quelli ancora in azione sono praticamente intrappolati.

In questa ricostruzione non sfugga il fatto che la presentazione del piano statunitense e la prima risposta di Hamas avvengono a pochi giorni dal secondo anniversario della strage del 7 ottobre 2023, quando cioè i terroristi di Hamas uccisero mille e quattrocento israeliani e ne presero in ostaggio altre duecentoquaranta, compiendo atti di inaudita violenza ed atrocità.

Il piano americano si articola in venti punti e prevede il cessate il fuoco immediato, lo scambio di tutti gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas con i circa duemila prigionieri palestinesi reclusi nelle carceri israeliane, il ritiro graduale delle forze armate di Tel Aviv con il contestuale disarmo di Hamas e l’istituzione di un governo di transizione a guida internazionale. Un piano apprezzato da molti Paesi arabi (compreso il Qatar e l’Anp) e dalle Nazioni Unite proprio per la determinazione di gran parte della comunità internazionale ad interrompere lo strazio a cui da molti mesi è sottoposta la popolazione palestinese. Popolazione costretta a vivere senza acqua, cibo e medicinali e che tenta come può la fuga dall’inferno, senza tuttavia avere molte possibilità di raggiungere destinazioni sicure.

Perché serve prudenza, come dicevo all’inizio di questa nostra analisi? La risposta è presto data. Le incognite non sono poche. La prima ruota intorno al modo in cui Hamas si comporterà nei prossimi giorni. Rilascerà tutti gli ostaggi israeliani, visto che ha già fatto sapere che non sarà possibile farlo in settantadue ore? Quanti saranno quelli che verranno rilasciati ancora in vita? Che cosa comporterà il fatto che questa organizzazione islamica intende rinviare la soluzione ultima a negoziati su questioni specifiche? Negoziati con chi e su cosa? Hamas alla fine accetterà il fatto che i palestinesi vengano governati temporaneamente da un organismo internazionale come propone Trump, oppure insisterà su un organismo palestinese fatto di tecnocrati indipendenti? In che modo risolverà il dibattito interno, visto che, stando a quello che evidenzia il Wall Street Journal, nel gruppo restano profonde divisioni su come procedere dopo la risposta data dal capo della Casa Bianca al loro comunicato? Escludendo l’ipotesi della resa, l’atteggiamento di Hamas sarà solo un modo per prendere tempo o rivelerà altro? Anche lato israeliano c’è almeno un’incognita. Davvero Netanyahu, nonostante le pressioni enormi esercitate ormai dalla stragrande maggioranza degli abitanti del suo Paese, fermerà i bombardamenti su Gaza? A quanto si apprende, le forze armate israeliane avrebbe avvertito i gazawi che, sebbene abbiano ricevuto l’ordine di ricorrere solo ad operazioni difensive, la situazione è ancora di grande pericolo per i palestinesi. Un segnale di certo non incoraggiante.

Riflettori puntati, dunque, sui negoziati che inizieranno nelle prossime ore in Egitto alla presenza di Steve Witkoff, inviato della Casa Bianca e uomo di grande esperienza, e di Jared Kushner, genero di Trump. La delegazione israeliana sarà guidata dal ministro per gli affari strategici Ron Dermer, che nella notte tra venerdì e sabato, quindi dopo la prima risposta di Hamas alla proposta della Casa Bianca, ha partecipato con il responsabile della Difesa Israel Katz ad una riunione d’emergenza indetta da Netanyahu. Riunione alla quale non sono stati invitati i rappresentati governativi dell’estrema destra, ovvero Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Particolare di non poco conto.

Va sottolineato che Netanyahu, che non ha valutato positivamente la prima risposta di Hamas a Trump e nemmeno il suo commento, non ha grandi alternative. Se infatti dovesse mettere in difficoltà il Presidente degli Stati Uniti nel suo ruolo di regista del piano di pace, dovrebbe confrontarsi con la reazione del tycoon che immaginiamo non sarebbe tenera, come del resto non è stata tenera quella successiva alla notizia del bombardamento israeliano di esponenti di Hamas presenti e operanti in Qatar. Peraltro e a ben vedere, Netanyahu non avrebbe nulla da guadagnare da un atteggiamento ambiguo ed incerto sul piano presentato dagli americani. Infatti, se Hamas accettasse la proposta, anche il premier israeliano uscirebbe dall’angolo. Parimenti, se alla fine l’organizzazione islamica dovesse rivedere la sua (pur condizionata) disponibilità, il premier israeliano avrebbe la possibilità di dire che non è lui a non volere la tregua, ma altri, facendo cadere su di loro la responsabilità della prosecuzione dell’operazione militare.

In ballo non c’è solo la fine dei bombardamenti sulla Striscia, ma anche la pace in Medioriente che da sempre si presenta come uno degli obiettivi più ambiziosi da perseguire a livello globale. L’Italia ha contribuito fattivamente alla creazione del clima di dialogo e soprattutto all’invio degli aiuti umanitari fin dal momento in cui è emersa la prova della tragedia in atto e della drammaticità delle condizioni in cui si trovano moltissimi civili palestinesi. Da Assisi, nel giorno dedicato alla festività di San Francesco (patrono d’Italia), Giorgia Meloni ha rivendicato il merito di aver evitato la trappola della contrapposizione che in tanti invocavano e invocano, incuranti delle conseguenze che si generano sull’azione diplomatica e sulle strategie elaborate a livello geopolitico. A questo si riferisce la premier quando dice che «la pace, come ci ricorda San Francesco, non si materializza quando si invoca, ma quando viene costruita con impegno e con coraggio, mattone dopo mattone, con responsabilità e ragionevolezza».

Non ci resta che continuare a sperare nel ruolo della diplomazia, il cui ruolo, nonostante tutto, rimane strategico. E, soprattutto, insostituibile.

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