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Il dibattito sulle regionali e la necessità di riscoprire i valori veri della politica

Il dibattito sulle regionali e la necessità di riscoprire i valori veri della politica

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Il dibattito sulle regionali e la necessità di riscoprire i valori veri della politica

Ci si sta concentrando su come sfruttare in modo strutturale il vantaggio che il Mezzogiorno sta registrando rispetto ad altre aree del Paese dal punto di vista economico?

Domenica 24 Agosto 2025, 13:19

Nella letteratura scientifica politologica esiste una chiara linea di demarcazione tra l’analisi delle azioni e deliberazioni pubbliche a livello nazionale e territoriale (policy), il ruolo degli attori politici, leader e partiti (politics) e le regole con le quali far funzionare il sistema nel suo complesso (polity). A considerare il dibattito che si è innescato in ordine alla scelta dei candidati alla presidenza delle regioni chiamate al voto nei prossimi mesi si ha la sensazione che l’unica dimensione che conti sia quella della «politics».

Il caso Puglia, con lo scontro tra Decaro ed Emiliano, è il più evidente, anche perché ad agosto è stato il più sfruttato mediaticamente, specie per le questioni interne al Partito democratico. È legittimo sollevare, dunque, la questione dei rischi che si corrono quando tutto ruota solo intorno ai candidati e quando il maggiore nutrimento di questa logica è quello della contrapposizione personale, con la rinuncia palese alla strutturazione e proposizione del programma da sottoporre alla valutazione degli elettori. Fatta eccezione per Marche e Calabria (ieri la notizia della candidatura di Tridico contro il dimissionario Occhiuto), restano ancora indefinite le candidature in Veneto e Toscana per quanto concerne il centrodestra e in Campania e Puglia per quanto concerne il centrodestra e il centrosinistra. Uno schieramento quest’ultimo da tempo alle prese con il tema della reale compatibilità di Pd e Avs con Cinque Stelle, Italia Viva e Azione, che qualche volta si muove da battitore libero. Qualche distinguo di troppo si registra nel centrodestra, ma trattasi di una coalizione abituata da decenni a governare l’Italia e molte delle regioni più importanti.

Ciò premesso, ci si sta ponendo il problema di individuare le soluzioni ai problemi più urgenti dei territori chiamati alle urne? Ci si sta concentrando su come sfruttare in modo strutturale il vantaggio che il Mezzogiorno sta registrando rispetto ad altre aree del Paese dal punto di vista economico? A me sembra di no. A me sembra che tutto si riduca ad una questione personale, frutto dell’intreccio di due elementi chiave: il potere e la visibilità. Due categorie, peraltro, profondamente interrelate tra loro, posto che il potere da’ visibilità e che la visibilità è già di per sé una forma di potere, anche se svincolato dall’esercizio della responsabilità, qui intesa come consapevolezza delle conseguenze sugli altri (la comunità nel suo complesso) delle proprie scelte o non scelte.

Cambiare la prospettiva metodologica, dunque, può restituire alla politica il suo significato più autentico e la sua funzione sociale, che di certo non è quella del consolidamento dei processi di tribalizzazione territoriale con l’insediamento di gruppi di potere, ma quella dell’ampio respiro programmatico e della reale proiezione futura. La politica non può restare ancorata allo stadio della «rappresentazione», oltretutto parziale e temporanea, rinunciando alla sua capacità di «rappresentanza» dell’elettorato attivo. Il caso di Giorgia Meloni dimostra che gli elettori ricercano autenticità, pragmatismo, spirito di intraprendenza, coerenza, credibilità. Così è stato per la premier e per il suo partito, ovvero Fratelli d’Italia, riuscito a registrare una crescita straordinaria dal 2012 (il 2%) al 2022 (il 26%) in occasione delle ultime elezioni politiche.

Tra l’altro, le performance elettorali di Fdi tra il 2018 (4,35%) e il 2022 (22 punti percentuali in più) costituiscono il terzo maggior incremento elettorale nella storia delle votazioni politiche in Europa Occidentale, dal secondo dopoguerra ad oggi. Un messaggio che arriva forte e chiaro, anche considerando i sondaggi attribuiti alla Meloni e a Fratelli d’Italia, a distanza di quasi tre anni dal suo insediamento (il dato di oggi supera il 30%).

È il mix tra leadership personale e organizzazione partitica a decretare il successo politico e a preservarne nel tempo la consistenza. Si tratta di elementi che vanno gestiti contestualmente, se non si vuol continuare ad assistere alla proliferazione di meteore politiche e di fuochi di paglia. Non si dimentichi nel contempo che il crollo delle ideologie e la crescita a dismisura del tasso di personalizzazione ha sviluppato un quadro nuovo e più complesso in cui comunicazione e marketing politico (processi di branding annessi) hanno trovato la loro legittimazione sociale e culturale non più solo in coincidenza del «consenso abilitante» (il momento delle elezioni), ma anche del «consenso confermante» (permanenza al potere).

L’abbandono del primato del programma genera, perciò, domande relative a ciò che è certo e ciò che è incerto, a ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, a ciò che è norma ed a ciò che non lo è, a ciò che è progresso e ciò che è regresso. Senza essere liberi da condizionamenti etici e morali, assai rilevanti per l’innalzamento della qualità reale e percepita dell’azione politica, e volendo convivere con «le verità» postmoderne si rende necessario, perciò, confrontarsi con la «diversità molteplice», per dirla con il filosofo Odo Marquard, ma pur sempre restituendo centralità alla politica in quanto «policy» e pur sempre considerando la comunicazione anche uno strumento di misurazione della performatività in base al consenso ricevuto e all’eliminazione del dissenso.

Nella prima modernità bisognava liberare l’individuo dall’ideologia dominante e difendere l’autonomia del privato dall’invadenza del pubblico. Nella seconda modernità l’obiettivo è stato ed è, invece, la difesa a tutti i costi dello spazio pubblico, la liberazione del senso comune dal peso del retaggio ideologico, la destrutturazione dei sistemi mal o poco funzionanti per provare a ricostruire un nuovo ordine politico, economico, sociale in nome non più dell’individuo ma del popolo e con l’intento di affrontare (e risolvere) il problema del divorzio della politica dal potere. Una condizione e non più un processo, dunque, che rende quasi inoffensivo il principio weberiano della «gratificazione differita«. Principio che impegna le scienze sociali, invitandole da un lato a contrastare i pericoli legati all’assenza totale o parziale di scelte programmatiche, dall’altro quelli generati dall’egemonia culturale del «politicamente corretto» e dagli eccessi di protagonismo individuale.

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