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L’acciaio non è un destino, ora Taranto si mobiliti per avere un futuro diverso

L’acciaio non è un destino, ora Taranto si mobiliti per avere un futuro diverso

 
alessandro terra

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alessandro terra

L’acciaio non è un destino, ora Taranto si mobiliti per avere un futuro diverso

Aldilà di qualche sussulto social, invece, non si è generato alcun dibattito, men che meno maturo, sugli eventi delle ultime settimane

Giovedì 07 Agosto 2025, 11:57

Le parole del direttore Mazza dell’edizione di mercoledì 30 luglio non lasciano spazio a fraintendimenti e aprono a mio parere diversi temi che meritano approfondimento e dibattito, anche duro.

Mi sarei aspettato che, a partire dall’editoriale del Direttore, ci sarebbe stato un maggiore coinvolgimento da parte dei soggetti in campo nell’infinita vicenda ex-Ilva nell’articolare punti di vista, magari diversi ma certamente utili a definire possibili traiettorie che la città di Taranto inevitabilmente si appresta a prendere. Aldilà di qualche sussulto social, invece, non si è generato alcun dibattito, men che meno maturo, sugli eventi delle ultime settimane. Sebbene lo spazio di un articolo non sia sicuramente sufficiente a restituire la complessità della vicenda legata al siderurgico e alla città, alcuni punti, a mio parere, vanno messi.

La premessa è che Taranto non è una città pacificata (per fortuna, mi sento di aggiungere) e chi amministra, ma anche chi commenta le vicende del territorio, dovrebbe sempre tenerlo ben presente. I soggetti istituzionali - tutti - non possono invocare ad ogni occasione la partecipazione della comunità, salvo poi criminalizzarla quando non è compatibile con il potere, quando assume forme che non sono di gradimento a chi ha in mano buona parte del destino di un territorio vessato da decenni di inquinamento e subalternità. Partendo dall’amministrazione della città, mi sembra quantomeno ingenuo pensare che questa possa godere, come richiesto da alcuni esponenti della maggioranza, di un ulteriore periodo di indulgenza da parte della cittadinanza.

Circa la metà degli eletti in consiglio comunale, infatti, viene da precedenti esperienze amministrative e anche tra i nuovi volti c’è chi fa direttamente ed esplicitamente riferimento ai capi bastione di partito, che da oltre un decennio, tra incarichi e poltrone, amministrano la città. La mossa del sindaco Bitetti, dimissioni e ritiro delle stesse in pochi giorni, conferma che ci troviamo davanti più a una furbizia procedurale, utile a prendere tempo e fare i conti interni alla maggioranza, che ad un ritiro sincero, imputabile ad un - fantomatico - clima ostile. La fuga del primo cittadino e le sue successive esternazioni confermano, invece, quella che era l’impressione della piazza del 28 luglio, ovvero che non c’è nessuna reale volontà dell’amministrazione di interrogare la cittadinanza, bensì il solo tentativo di barcamenarsi tra le posizioni del governo centrale e di quello regionale. Eppure, amministrare una città complessa come Taranto significa (anche) esporsi alle contestazioni, talvolta dure, e saperle, se non recepire, quantomeno gestire.

A parere di chi scrive, la rabbia di questa città non può e non deve essere gestita come un problema di ordine pubblico, i movimenti ambientalisti di Taranto non possono essere ridotti dalle istituzioni e dalla stampa a forme macchiettistiche di urlatori di professione o declassati ad una minoranza rumorosa. Le diverse sigle della galassia ambientalista della città, infatti, negli anni hanno portato in piazza migliaia di persone, senza che possa dirsi lo stesso di organizzazioni partitiche o sindacali, certamente non in grado di mobilitare numeri anche lontanamente simili. La crisi dei corpi intermedi, d’altra parte, riguarda non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente: possiamo nostalgicamente ricordare i bei tempi andati, ammesso che fossero davvero belli, o intravedere nelle nuove forme della partecipazione politica la forza costituente del mondo che verrà.

I movimenti ambientalisti locali hanno generato, a partire dalle lotte, nuovi modi di stare insieme, di fare comunità e di prendersene cura. Ancora, hanno prodotto dal basso competenze e saperi, non ultimo il «Piano Taranto», un documento di ormai qualche anno fa, che non rappresenta certamente la panacea di tutti mali, ma che andrebbe ripreso con forza quale punto di partenza per la costruzione della città del futuro. Quel documento parla senza mezzi termini di chiusura e bonifica, ovvero esattamente i punti sui quali, a mio parere, occorre misurarsi.

È infatti evidente come quello della chiusura sia il nodo attorno a cui gravita il discorso; e, allora, affrontiamolo a viso aperto. Da una parte, il governo e le sue diramazioni locali utilizzano l’ipotesi della chiusura come una minaccia. Lunedì il ministro Urso, nel dare l’ultimatum all’amministrazione comunale sulla firma dell’accordo di programma, ha paventato l’ipotesi della costruzione di un polo siderurgico nella piana di Gioia Tauro, altra zona depressa del Mezzogiorno, in caso di mancata accettazione delle sue condizioni, ovvero la costruzione di quattro impianti Dri e tempi molto dilatati per la transizione «green» dell’attuale stabilimento a ciclo integrale.

Da un’altra parte - ma non molto distante dal governo - i sindacati, unitari più che mai, invocano piani di transizione verso l’elettrico alimentato a gas prima, e a idrogeno, chissà quando, agitando la retorica della salvaguardia dei livelli occupazionali e del «altrimenti si fa la fine di Bagnoli». Eppure, dovrebbero sapere - e sicuramente lo sanno - che quelle eventuali nuove tecnologie prevedono comunque molti meno addetti di quelli attualmente in forze allo stabilimento.

Poi c’è la città, spesso avvilita, sicuramente disincantata, che fa i conti con un quotidiano fatto di precarietà, che vede nell’ipotesi della chiusura la sua antitesi, ovvero l’apertura di un campo di possibilità, in primis quella di emanciparsi dalla fabbrica e dal suo impatto ambientale, per poi ridefinirsi. Una città che rifiuta la narrazione per cui non è previsto un futuro senza industria siderurgica, che chiede di essere partecipe diretta della transizione, che rifiuta ipotesi a metà strada, come quella abbozzata nel documento della maggioranza del consiglio comunale di un solo impianto Dri - che, va ricordato, è un impianto «a caldo» - e che pretende investimenti per la chiusura, la bonifica, la progettazione e riqualificazione dell’area ex-Ilva.

Il ministro Urso ha parlato di investimenti di circa 7 miliardi di euro per fare dello stabilimento di Taranto il più importante polo siderurgico green d’Europa: ancora una volta, dunque, si prevede un investimento pubblico per generare profitti privati di eventuali compratori - ad oggi sconosciuti - pur di tenere in vita uno stabilimento irrimediabilmente a fine corsa.

Qualche anno fa, l’allora sindaco Stefàno si procurò non poche critiche affermando che i tarantini fossero orgogliosi della fabbrica; sono certo che avverrebbe lo stesso, oggi, se qualcun altro aggiungesse l’aggettivo «green» alla stessa frase. Sette miliardi, d’altra parte, sarebbero una cifra consona a programmare il futuro post siderurgico.

Nel suo editoriale il Direttore Mazza ha evocato una cronica incapacità, a queste latitudini, di essere padroni del proprio destino. Da parte mia, non penso che questa affermazione possa essere misurata sulla firma dell’accordo di programma proposta dal ministro Urso, né sull’accettazione delle ipotesi di decarbonizzazione, leggermente più sfumate, del governatore Emiliano. Penso, al contrario, che vada misurata sulla capacità di pretendere la chiusura degli impianti ex-Ilva.

Si è ora aperta una finestra di possibilità che sta ai movimenti ambientalisti della città cogliere, dando seguito alle mobilitazioni delle ultime settimane non solo per rifiutare le decisioni calate dall’alto, ma anche per scrollarsi di dosso le etichette superficialmente incollate da chi vorrebbe una gestione del potere priva di tensioni e conflitto.

Il 12 agosto scade l’ultimatum del ministro Urso; penso che entro quella data sia quantomai necessario lanciare una grande mobilitazione che possa rappresentare un nuovo punto di partenza della città, per chiarire, a sé stessa e alle istituzioni, il sentimento che la muove: il desiderio di chiusura, senza ipotesi intermedie, nel minor tempo possibile.

Un appello, il mio, che spero possa essere colto da tutti coloro che immaginano, come me, una città più orgogliosa e partecipe nel costruire un futuro che parla di sostenibilità, emancipazione dalla storia industriale che ci è stata imposta e nuove forme di cittadinanza e comunità.

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