Sabato 20 Settembre 2025 | 04:29

Ricominciamo da Gaza ormai è in gioco la nostra civiltà

 
Carmen Lasorella

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Carmen Lasorella

Ricominciamo da Gaza ormai è in gioco la nostra civiltà

La narrazione distopica dell’inferno di Gaza continua: il governo di Netanyahu ha disposto una «tregua umanitaria» per porre fine alla «presunta carestia», che uccide i palestinesi, condannati da Hamas, che non vuole la pace

Lunedì 28 Luglio 2025, 13:00

La narrazione distopica dell’inferno di Gaza continua: il governo di Netanyahu ha disposto una «tregua umanitaria» per porre fine alla «presunta carestia», che uccide i palestinesi, condannati da Hamas, che non vuole la pace. «O noi o loro», per Israele a questo punto, l’obiettivo è esplicito: non può esistere uno stato palestinese contiguo, Gaza diventerà israeliana.

Le immagini degli aerei, che liberano cuffie bianche e nere nel cielo, mentre di sotto il territorio palestinese è diventato un fazzoletto arido di macerie, raccontano un fallimento. Dal 2 marzo scorso, da quando cioè dopo una esile tregua, seguita allo scambio parziale di prigionieri e di ostaggi, da una parte e dall’altra, i bombardamenti e le azioni di terra israeliane si sono moltiplicate, moltiplicando il numero dei morti (pressoché tutti civili inermi), la fame a Gaza è diventata ufficialmente arma di guerra e quasi il 90 per cento del territorio della Striscia è sotto il controllo militare dell’Idf, l’esercito di Tel Aviv. All’incirca due milioni di persone sono compresse in una strisciolina tra il mare e gli insediamenti militari. È un’umanità (? - il punto interrogativo per alcuni è addirittura lecito) affamata, ammalata, costretta in sistemazioni miserabili, insicure, malsane.

Si può considerare umanitaria una tregua, che lascia migliaia di tonnellate di aiuti disponibili fuori dei sette valichi chiusi di Gaza, con teorie di camion pagati dalle Nazioni Unite, immobili, mentre il cibo marcisce e i presidi sanitari si ammalorano? Una tregua di 24 ore, che riduce l’aiuto per non morire ad approssimativi lanci con il paracadute di quel poco che serve a poco, sganciato sulla testa di un popolo stremato, anche dalla mancanza di speranza? Dal basso, le poche immagini inviate da colleghi eroici, i pochi giornalisti sopravvissuti (quasi duecento colleghi sono stati uccisi in questi 21 mesi di mattanza, secondo i dati della federazione internazionale della stampa, IFJ) mostrano corpi scheletriti, che arrancano verso le casse rotte all’impatto con il suolo, mentre altre sono finite in mare. Dall’alto, invece, lo spettacolo è perfino peggiore. Nei video, girati dai piloti israeliani, la distanza rende orrendo il contesto. Gli esseri umani diventano puntini neri che assalgono a grappolo i contenitori di aiuti.

Il paragone con gli scarafaggi sovviene inevitabile. Uomini o insetti, che si accaniscono sui residui alimentari sul terreno? Immagini, già viste un anno fa: non esseri umani, ma insetti, appunto. Harakim, in lingua ebraica. Così li ha definiti più volte la propaganda israeliana. Può il «popolo eletto» stare sullo stesso piano degli harakim? Il ministro della Difesa di Israele, Bazalel Smotrich è arrivato a parlare di «purificazione» dei territori, ricorrendo magari all’acido prussico.

La cosiddetta «guerra di Gaza» usa dunque strategie militari e psicologiche, esplicite e più sottili, che mirano tutte, comunque, a screditare il popolo palestinese, privandolo della sua identità. La lotta armata contro i miliziani di Hamas, evocati alla bisogna, passa perfino in secondo piano. Conta deumanizzare, isolare il nemico in un sistema di apartheid, in essere da decenni. Serve provocare il disimpegno morale, arrivare alla colpevolizzazione delle vittime, a fronte delle responsabilità immense dei carnefici. Quei territori devono tornare ad Israele. I principi del diritto umanitario internazionale sono in frantumi. Altre volte è accaduto nella storia. Per esempio, alla corte di Carlo V d’Asburgo, nel ‘500, dove ci si interrogava sulla natura degli abitanti del Nuovo Mondo, appena scoperto: «Uomini, omuncoli o scimmie?» E i nazisti? Erano arrivati all’abisso, lo sappiamo. Può ripetersi oggi, a distanza di secoli o di decenni sulle sponde del Mediterraneo, che sono anche le nostre? Le testimonianze delle atrocità in corso sono offerte da autorità laiche e religiose, mentre l’informazione indipendente, per la quale resta sbarrato ogni accesso da 21 mesi, cerca di raccogliere altrove ciò che può servire a capire. La Bbc, per esempio, ha verificato che la Gaza Humanitarian Foundation voluta dagli americani, di concerto con il governo israeliano, è solo una realtà di facciata. La fondazione, che indica la sua sede nel Delawere, sulla East Cost degli Stati Uniti, semplicemente non si trova. Costituita due mesi dopo l’insediamento di Trump con lo scopo dichiarato di distribuire gli aiuti, avvalendosi del supporto di contractors e dell’esercito israeliano, di fatto è nata per smontare il sistema esistente, senza crearne uno nuovo. A danno dell’Onu, dunque e contro l’organizzazione professionale degli aiuti, messa in piedi nel tempo con le Ong accreditate. Si parla di soldi. Di molti soldi. Ma i tanti morti che ha provocato, in occasione della distribuzione del cibo, sparando sulla folla, costretta ad attraversare gabbie di ferro per ottenere un sacco di farina, totalmente inefficiente nei suoi compiti, resteranno senza colpevoli? Dall’organizzazione internazionale Eko, che si occupa di tutela dei consumatori, apprendiamo che Meta, il gigante americano dei social, ignorando le norme europee, surrettiziamente ha diffuso decine e decine di messaggi destinati al supporto dell’esercito israeliano, tramite non meglio identificate strutture filo governative di Tel Aviv. Né si possono tralasciare le parole del cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca cattolico in Terrasanta, con a fianco il suo omologo ortodosso: «Cristo è a Gaza, crocifisso nei feriti, sepolto sotto le macerie… quanto accade a Gaza è ingiustificabile». I balbettii dell’Europa e le iniziative sicuramente lodevoli di Macron, Staimer e Merz (una triplice intesa ancora in rodaggio), se danno timidi segnali di raggiunta consapevolezza, dopo 21 mesi di silenzi, non possono allora arenarsi su uno scoglio. Lo chiedono le piazze e lo chiede ciascuno di noi, nonostante le narrazioni distopiche che continuano. Accettare questo crimine è un crimine. È una questione di volontà più che di strumenti. È in gioco la nostra civiltà. Ricominciare da Gaza, si può. Il costo dei principi si paga.

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