Nell’era del selfie, anche l’indignazione deve stare bene in foto. Non basta più provare empatia: bisogna saperla esibire. Magari con il filtro giusto, la caption ad effetto, il momento perfetto per massimizzare visibilità e approvazione. E allora, in vista del 21 giugno, giorno che celebra il gesto simbolico del nostro tempo - fotografare sé stessi -, vale la pena chiederci: che ne è della nostra empatia quando tutto passa dal bisogno di apparire?
In Italia, oltre il 72 % della popolazione è attiva sui social media, con più di 42 milioni di utenti connessi ogni giorno (We Are Social, 2024). Non siamo solo presenti online, siamo esposti. E sotto i riflettori costanti del feed, anche le emozioni sociali come l’empatia o l’indignazione morale si trasformano in strumenti di narrazione pubblica. È il caso di quella che Kurt Gray, autore del libro Outraged, definisce «moral grandstanding»: l’ostentazione della virtù per segnalare al mondo - meglio, all’algoritmo - da che parte stiamo.
Oggi non basta più indignarsi per un’ingiustizia: serve farlo bene, al momento giusto e, soprattutto, davanti al pubblico giusto. Un tweet accorato, un post su Instagram, una storia indignata - purché siano visibili. L’empatia, che un tempo nasceva nel silenzio e nell’ascolto, ora è chiamata a salire sul palco. A volte, più che provare qualcosa, bisogna farlo vedere.
Ma quando l’empatia diventa una performance, rischia di perdere la sua forza. Ci si preoccupa più di apparire empatici che di esserlo davvero. È come sorridere per una foto: il sorriso c’è, ma forse non è il nostro. Così, anziché connetterci, ci posizioniamo. Anziché ascoltare, reagiamo. L’indignazione diventa automatica, riflessa, e invece di unire, separa.
Non è un caso se il valore morale viene sempre più spesso misurato in like. Non conta più quanto siamo disposti ad ascoltare, ma quanto siamo rapidi a schierarci. Ogni post è una dichiarazione identitaria. E ogni gesto empatico rischia di diventare un atto estetico, più che etico.
Eppure, non tutto è perduto. Gray non propone di zittire l’indignazione - sarebbe un errore. Ma ci invita a usarla meglio. L’indignazione può ancora essere un motore di cambiamento, se smette di essere solo un gesto per essere visti e torna a essere un’occasione per vedere meglio.
Cosa possiamo fare, allora? Primo: ascoltare di più e parlare meno. Secondo: riconoscere che dietro molte posizioni che giudichiamo «altre» ci sono spesso valori simili ai nostri - sicurezza, giustizia, benessere. Terzo: ridurre l’ostentazione morale. Chiediamoci: «Lo sto facendo per aiutare o per apparire?». Se la risposta è onesta, forse il filtro non serve.
La Giornata del Selfie ci ricorda che oggi il sé è sempre in primo piano. Ma l’empatia non si scatta in posa: si costruisce nel tempo, nella vulnerabilità, nel silenzio che precede una parola giusta. Che questa ricorrenza sia anche l’occasione per guardarsi - davvero - allo specchio. E per riscoprire un’empatia che non ha bisogno di like, ma solo di verità.