In ogni appuntamento elettorale, che si tratti di Comuni o della Regione, emerge un fattore costante: la parte più fragile della popolazione - quella che alcuni, con sprezzo, chiamano «popolino» - diventa decisiva. È una fascia sociale e culturale che si muove, notoriamente, condizionata dai bisogni più immediati. Attorno a quei bisogni si è costruito, negli anni, un sistema efficiente: reti, intermediari, addentellati parastatali del welfare che offrono risposte rapide, assistenza, servizi, pacchetti di consenso, in cambio di fedeltà.
I caratteri sociali delle regioni del Mezzogiorno sono stati l’humus di questo fenomeno. Ma è in Puglia che ha assunto tratti sistemici. Qui si è consolidato un modello di governo territoriale che, dietro la retorica dell’inclusione, ha costruito un blocco di potere capace di neutralizzare ogni opposizione, inglobare pezzi di società civile e ridurre al minimo il dissenso organizzato. Il cosiddetto «sistema Bari» - o «sistema Puglia» che dir si voglia - fatto di relazioni incrociate, incarichi distribuiti, centri culturali cooptati, agenzie di mediazione e fondazioni ibride, rappresenta la forma compiuta di questo modello. Non è più solo politica: è governance consolidata, occupazione chirurgica degli spazi pubblici, dei corpi intermedi, delle amministrazioni locali.
Dietro questa apparente compattezza, tuttavia, non si intravede una proposta politica viva, né un concorso di idee. Solo repliche: stesse logiche, stessi volti, stessi interpreti. Nessuna visione, soltanto «manutenzione» del potere.
Chi spera in un’alternanza fisiologica immagina che, prima o poi, la destra sostituirà la sinistra. Ma difficilmente accadrà a breve, e nemmeno in modo ordinato. Perché la destra pugliese oggi non è classe dirigente, non è progetto, non è visione. È troppo concentrata su sé stessa, intrappolata nel proprio carrierismo, nell’illusione che il sistema imploda da solo, nel calcolo attendista che il «big bang» arriverà senza impegno, senza pensiero, senza dedizione.
Manca, nella destra, il rapporto umano con il popolo: quello autentico, profondo, costruttivo. Manca l’ascolto, manca la fatica dello studio, manca l’analisi della trasformazione che la Puglia ha conosciuto negli ultimi anni. Una regione diventata centrale nello scenario nazionale, sempre più visibile su quello europeo, piena di contraddizioni ma anche di energie che chiedono rappresentanza.
C’è chi spera che i pugliesi si stanchino del paradigma sociale costruito ad arte, delle leadership empaticamente potenti ma sempre più ripetitive. Ma dovrebbe prima chiedersi: con cosa intende sostituirlo? Perché sì, accadrà. I pugliesi prima o poi si stancheranno e andranno alla ricerca, non di nuovi illusionisti, ma di padri nobili: nel pensiero, nell’esempio, nella vita. Costruttori di una comunità orizzontale, fondata su rispetto, giustizia, merito, solidarietà. Perché è nell’indole dei pugliesi, popolo disomogeneo - data la lunghezza del suo territorio - ma profondamente somigliante al mare.
Come spesso accade nei regimi stanchi, la caduta non viene dall’esterno, ma dall’eccesso di potere esercitato senza misura. E qui vale la massima andreottiana: «Il potere logora chi non ce l’ha». Una verità che ha accompagnato per anni le sconfitte della destra pugliese. Ma oggi va aggiunto qualcosa in più: il potere logora anche chi ce l’ha, se viene gestito senza limite e senza etica. Il CAF, asse egemone della Prima Repubblica, è morto strozzato dalla propria ingordigia. Così morirà anche questo sistema.
Nel frattempo, la partecipazione si è spenta e la rappresentanza si è fatta debole. I partiti devono ripensare il proprio ruolo: non più vetrine digitali nutrite dall’ego dei «selfisti», da chi crede che la politica si possa risolvere sui social, ma luoghi veri, fisici, in cui si ascolta, si pensa, si agisce.
Quando il castello inizierà a tremare - e tremare lo farà - servirà farsi trovare pronti, con una visione e una comunità da costruire.
















