Dal 1945 al 2025 l’Italia ha vissuto ottant’anni di pace. Con un’unica eccezione, spesso dimenticata, ma che vale la pena ricordare in questi tempi in cui venti di guerra sono tornati a fischiare sull’Europa. Come accadeva in quel 1999 in cui una guerra insanguinava i balcani: il Kosovo filoccidentale si era proclamato indipendente, la Serbia filorussa l’aveva attaccato. La Nato si preparava a intervenire mentre l’Onu, bloccato dal veto russo, non autorizzava alcun intervento militare.
In Italia governava Romano Prodi, appoggiato da una risicata maggioranza di centrosinistra di cui facevano parte anche i comunisti di Fausto Bertinotti, maggioranza che sarebbe andata in pezzi proprio in quei momenti.
È in questo scenario (molto ben ricostruito nel primo episodio di un agile podcast intitolato «Il Palazzo», firmato da Matteo Marchetti e Luca Sappino) che il più atlantista dei democristiani, Francesco Cossiga, diede prova della sua luciferina intelligenza politica.
L’ex presidente della Repubblica raccolse un manipolo di parlamentari centristi e li mise a disposizione di una nuova maggioranza di centrosinistra. L’unica condizione posta da Cossiga è che il nuovo governo dovesse essere guidato dal leader del partito postcomunista, il segretario Pds Massimo D’Alema. «Il leader della sinistra era indispensabile per fare la guerra in Kosovo» pare abbia confidato Cossiga in quei giorni a chi gliene chiedeva il perché. E in effetti così fu: Bill Clinton portò la Nato in guerra e Massimo D’Alema fece altrettanto con l’Italia, informando il parlamento solo a cose fatte. Dalla base di Aviano decollarono i caccia della Nato (compresi quelli italiani) e andarono a bombardare lo scenario di guerra.
Bertinotti si sfilò ma la maggioranza tenne grazie ai raccogliticci voti procurati da Cossiga. Ma soprattutto grazie al fatto che il gruppone parlamentare del Pds tenne.
Lo ha raccontato recentemente Giovanni Pellegrino, all’epoca senatore di Lecce, durante la presentazione nella sede della Treccani a Roma di un suo libretto edito da Manni editore, Francis e Guglielmino. «Uno dei più bravi senatori del Pds, il grande magistrato Salvatore Senese, ogni giorno mi telefonava la mattina presto» ha raccontato Pellegrino davanti a un divertito D’Alema, presente al dibattito in Treccani. «Mi chiamava per dire che aveva passato tutta la notte a studiare e che noi stavamo partecipando a una guerra illegale e stavamo commettendo crimini contro l’umanità».
La risposta del senatore Pellegrino al collega era politica, non giuridica. «Ogni volta io gli dicevo: Salvatore guarda, tu di diritto internazionale ne capisci molto di più di me. Però rifletti che oggi a palazzo Chigi c’è D’Alema. Se tu dirai queste cose in Senato, un terzo del gruppo ti seguirà e D’Alema questa sera si sarà dimesso». Così lui borbottava «e beh, allora non ci vengo alla seduta di oggi». E le cose andavano avanti così.
L’episodio del senatore Senese raccontato da Pellegrino (alla presenza di D’Alema) ci conferma che il luciferino calcolo di Cossiga fu giusto e che solo il leader della sinistra poteva portare l’Italia in guerra; ci spiega perché questo avvenne senza che piazze e strade si riempissero di cortei e manifestazioni, cosa che sarebbe certamente avvenuta in altre condizioni politiche; e ci racconta infine una verità intuibile ma spesso mascherata dell’ipocrisia: che in politica spesso si ingoiano i rospi peggiori, quando sono i «tuoi» a propinarteli.
E infine ci insegna a diffidare da alcuni maestri dai capelli bianchi che oggi si ergono a modelli di democrazia: come dice il poeta, bravissimi a dispensare buoni consigli, non potendo più dare il cattivo esempio.