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Politici contro giudici: da Trump al Watergate la storia di un conflitto

Politici contro giudici: da Trump al Watergate la storia di un conflitto

 
Enzo Verrengia

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Enzo Verrengia

Politici contro giudici: da Trump al Watergate la storia di un conflitto

Il nuovo affaire politico-giudiziario che tocca le massime sfere del governo italiano non fa che riproporre un attrito fra i due organismi ben più ampio nello spazio e nel tempo

Giovedì 30 Gennaio 2025, 14:16

Il nuovo affaire politico-giudiziario che tocca le massime sfere del governo italiano non fa che riproporre un attrito fra i due organismi ben più ampio nello spazio e nel tempo. Dai tempi di Mani Pulite e delle inchieste su Berlusconi fino al processo contro Salvini, quello delle vicissitudini nazionali è solo un arco limitato della difficile convivenza fra due poteri di eguale incidenza sulle strutture amministrative dello Stato.

La sola cronaca recente registra il caso di Donald Trump, imputato senza ammenda e senza pena dal giudice di New York Juan M. Merchan per aver tentato di far tacere su una vicenda privata di sesso Stephanie A. Gregory Clifford, in arte Stormy Daniels, di professione attrice porno. Il tutto quando lui era in pratica già eletto alla Casa Bianca.

Più lunga e articolata la controversia legale a carico di Bill Clinton, per avere mentito al popolo americano sulla sua relazione con la stagista Monica Lewinsky, datata 1995. La faccenda diventò di pubblico dominio quando Linda Tripp, dipendente del Ministero della Difesa e amica dell’amante del presidente, consegnò le registrazioni telefonate con quest’ultima al giudice Ken Starr, che acquisì l’effimera popolarità in sorte per chi, dagli scranni della legge, si confronta con l’autorità costituita. A quel punto, peraltro, Clinton era già incappato negli strali degli organi giuridici per avere molestato la giornalista Paula Jones, prima di Washington, quando occupava la carica di governatore dell’Arkansas. Starr mise a nudo i comportamenti sessuali del presidente che suonava il sax, giunto alle soglie dell’impeachment, la rimozione forzata prevista dalla costituzione degli Stati Uniti d’America, nel dicembre 1988 con l’accusa gravissima di falsa testimonianza. Venne assolto, ma questo non gli impedì che gli venisse comminata una multa di 90.000 dollari dalla giudice Susan Webber Wright per aver fornito una falsa testimonianza in merito alla questione di Paula Jones.

Andrew Johnson, vicepresidente di Abraham Lincoln, poi succedutogli, è considerato dagli storici il peggior presidente della storia americana, anche lui sfuggito di strettissima misura all’impeachment, e precisamente per un solo voto in suo favore del senatore repubblicano Edmund G. Ross. Tutto perché gli si imputava di avere violato il Tenure of Office Act. Quest’ultimo, in vigore dal 2 marzo 1867 al 1887, era finalizzato a limitare la facoltà del presidente di destituire i detentori di importanti uffici governativi. Johnson vi oppose il veto, di cui dovette poi rispondere al Senato e al Congresso.

Ovviamente la madre, o meglio il padre di tutti gli scontri istituzionali si chiama Watergate. Per comprendere appieno gli effetti di quella fallita effrazione, la notte del 17 giugno 1972, bisognerebbe inventare la psicanalisi politica. Solo un indagine nel profondo della società americana può portare alla luce le ragioni di quel cataclisma legislativo. Nel 1832, Alexis de Toqueville scriveva il Viaggio negli Stati Uniti, dove si legge: «È penoso vedere che grossolane offese, che meschine maldicenze e che imprudenti calunnie riempiano le pagine dei giornali.» Ma quelle sulla Casa Bianca di Nixon non erano né «grossolane offese» né «meschine maldicenze». La campagna rimbalzata dalle colonne della Washington Post a quelle del New York Times, del Los Angeles Times e di tutti i mezzi d’informazione suscitava l’incredulità, lo sgomento e l’indignazione di un Paese che aveva confidato nel suo presidente fino a rinnovargli il mandato con il 61 per cento dei voti nelle elezioni del 7 novembre 1972, quando già si allungavano nella sua direzione le prime ombre del Watergate. La condanna di Nixon per impeachment somigliò al parricidio. La nazione, simile a un’immensa famiglia, faceva giustizia al suo interno.

In Italia si ventilò una procedura simile quando Francesco Cossiga, nella stagione finale della sua permanenza al Quirinale, cominciò a levarsi i famosi sassolini dalle scarpe, ossia ad effettuare con un ritmo sempre più incalzante dichiarazioni non conformi alla terzietà fino ad allora mantenuta dai presidenti della Repubblica. Si guadagnò in tal modo l’appellativo di «picconatore», che finì per rivolgere contro se stesso allorché diede le dimissioni il 28 aprile 1992, due mesi prima della scadenza naturale del suo mandato.

Era l’apice di Mani Pulite, e l’Italia esultava per il repulisti della politica che effettuavano i magistrati milanesi. Poi, però, le cose avrebbero preso pieghe più inestricabili.

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